Il calcio è specchio fedele dei tempi! Quello che un tempo, pur nella sua complessità, era il gioco più semplice del mondo, oggi è diventato un’arena per battaglie ideologiche, un teatrino dove il politically correct si pavoneggia con l’agilità di un elefante in un campo di margherite. E così, tra un pressing asfissiante e un fuori gioco contestato nonostante il VAR, ecco che il pallone diventa portatore di messaggi universali, ma solo finché non inciampa in una contraddizione. Prendete il caso di Marc Guehi e la sua innocente, quasi disarmante, dichiarazione d’amore per Gesù, impressa su una fascia arcobaleno che avrebbe dovuto celebrare l’inclusività. “I love Jesus”, ha osato scrivere il difensore del Crystal Palace, e il mondo si è accartocciato in un cortocircuito tragicomico.
Ebbene sì, il Figlio dell’Uomo, profeta di pace e fratellanza, pare essere inopportuno quando si tratta di condivisione. Troppo esclusivo, forse? Troppo poco compatibile con una bandiera che vorrebbe rappresentare tutti, ma che si scopre improvvisamente allergica a una fede millenaria. La FA ha balbettato sanzioni, poi si è fermata, forse rendendosi conto dell’assurdità: davvero Gesù poteva essere ritenuto un pericolo per una campagna di inclusività? Siamo nel manuale del grottesco. Non più alla frutta, ma al famoso ammazzacaffè. Non possiamo che immaginare dei lord inglesi, dall’alto della propria campana di vetro, sorseggiare un bicchierino e, al contempo, prendere decisioni tanto strampalate.
E che dire del Manchester United, che aveva pensato di far scendere i suoi uomini a riscaldarsi con maglie arcobaleno contro l’Everton, salvo ritirare tutto perché Mazraoui, musulmano osservante, aveva gentilmente fatto sapere che no, la maglia non l’avrebbe indossata. La società, in fretta e furia, ha cambiato idea, nascondendo l’imbarazzo dietro un muro di silenzio. È qui che il politically correct mostra tutta la sua goffaggine e incoerenza: inclusivo con alcuni, cauto con altri, severo con chi ha meno peso mediatico e servile con chi non si può contestare.
La morale? In nome dell’inclusività, si finisce per escludere. Non si può imprimere “I love Jesus” sulla fascia, perché Gesù, paradossalmente, potrebbe risultare divisivo. E non si può neppure costringere un credente musulmano a indossare una maglia pro-LGBTQ+, perché sarebbe un atto di prepotenza culturale. E così, tra un passo avanti e due indietro, ci si ritrova fermi, con il pallone al centro del campo, ma nessuno disposto a calciarlo per paura di sbagliare lato.
L’industria sportiva, oggi più che mai, si muove su un campo minato, cercando di conciliare l’espressione autentica di chi la vive con il suo ruolo crescente come portavoce di valori sociali condivisi. È un equilibrio precario, quasi impossibile, ma che definisce il nostro tempo: uno sport che non si limita al terreno di gioco, ma diviene palco e specchio della società.
Il problema è che il calcio, come la vita, non ama le ipocrisie. È fatto di passaggi semplici, di regole universali: rispetto per tutti, libertà di tutti. Il messaggio di Gesù non era forse proprio questo? Condividere, includere, amare. Ma qui sembra che il messaggio sia stato spogliato della sua essenza, lasciando un’armatura vuota che si muove solo per non disturbare. E così il politically correct assume i contorni di un clamoroso autogol. A quando un po’ di buon senso? O forse è chiedere troppo anche questo, tra una fascia e una maglia mai indossata.
BIO: VINCENZO DI MASO
Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.
Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia.
Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.
Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.
Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.
4 risposte
“Ecclesia libera in libera patria” celebre frase dello statista francese Charles de Montalabert poi ripresa da Camillo Benso di Cavour ed utilizzata in occasione del suo primo intervento al parlamento fatto dopo la proclamazione del Regno d’Italia: “Libera chiesa in libero stato” Secondo il suo pensiero il Papa doveva dedicarsi unicamente al potere spirituale dimenticandosi il “potere temporale” sui suoi possedimenti; ciò avrebbe permesso la convivenza fra Stato e Chiesa. Eravamo soltanto nel 1861 e quell’assioma di storia non si è mai concretamente realizzato. Il mondo umano troppo spesso per etiche ed etnie diverse ha combattuto guerre estenuanti e sanguinare che a tutt’oggi ci sopprimono. Confidiamo nella prossimità del Santo Natale in un mondo migliore!
Un caro saluto Vincenzo, buona giornata e a presto!
Massimo 48
In un mondo complesso e in una società laica e plurale sarebbe opportuno non utilizzare simboli di parte, di qualsiasi natura, specie se religiosi ,che producono solo divisioni e in certi casi, come la storia tristemente insegna, delle vere e proprie guerre. Altra cosa è richiamarsi a valori universali, quali la pace, la fame nel mondo, il diritto all’istruzione e alla salute, al rispetto della dignità dell’uomo, alla difesa delle libertà individuali e collettive…Valori che uniscono e non simboli che dividono. Ma, da libertario convinto, nessuno è autorizzato a dire a l’altro cosa dovrebbe o non dovrebbe fare. Si dovrebbe garantire piena libertà di espressione a tutti, nessuno escluso. Circa il riferimento al politicamente corretto e alla supposta distinzione tra progressismo e conservatorismo, credo che in questo caso sia assolutamente fuori luogo. Mi appare più una “forzatura concettuale “che una spiegazione obiettiva della decisione
Un caro saluto
Salve Raffaele,
“Laica” e “laicista” non sono sinonimi, sebbene l’assonanza possa trarre in inganno. La differenza è profonda e sostanziale, e si riflette nel modo in cui interpretiamo il rapporto tra fede, diritti e società. Le religioni, così come le battaglie per i diritti, non sono la matrice delle guerre. I conflitti nascono dalle distorsioni umane, dalle ambizioni e dagli estremismi che tradiscono i principi originari.
La fascia indossata da Marc Guehi – “I love Jesus” su uno sfondo arcobaleno – non è una contraddizione, ma un simbolo di coesistenza. Porta con sé due messaggi altrettanto potenti: uno spirituale, radicato nella fede, e l’altro universale, legato all’inclusione. Sono prospettive che possono convivere, se solo lo si vuole.
Il richiamo all’ipocrisia del “politically correct” è inevitabile e necessario. La gestione del caso Mazraoui da parte della FA mette in luce incoerenze imbarazzanti, svelando un sistema spesso più attento alla forma che alla sostanza. Conservatorismo contro progressismo? È un dualismo che qui non trova spazio, perché il problema non è ideologico, ma etico. E in questa zona grigia, dove simboli e significati si intrecciano, lo sport dimostra ancora una volta di essere lo specchio delle nostre contraddizioni.
Un caro saluto,
Vincenzo
Caro Vincenzo, ho utilizzato il termine laico con cognizione di causa, perché intercetta anche il rispetto del diritto di chi religioso non è. La soluzione potrebbe essere quella di riconoscere il principio del rispetto della libertà di espressione, anche se si dovesse trattare di un credo religioso. Da libertario convinto, sono persuaso che nessuno debba sentirsi autorizzato di vietare all’altro cosa dovrebbe o non dovrebbe fare. Piena libertà di espressione a tutti, nessuno escluso.