Capisco che il titolo appaia retorico e un filo scontato, ma potendo dirla a voce… lo farei con un tono sarcastico. Da sempre i tecnici dall’altare cadono nella polvere causa una sola partita, da sempre gli stregoni dell’anno prima sono i ciarlatani dell’anno dopo: il giudizio nel calcio è frenetico, istintivo, di pancia come si suol dire. Contano anche simpatie e insofferenza nella valutazione dell’uomo. Non ho conosciuto nella mia vita un solo allenatore umile, non fa parte del loro bagaglio, del loro dna e questo non è necessariamente un difetto, anzi: ognuno è convinto che se andasse ad allenare la mia amata Macallesi, la porterebbe in serie A. La differenza è tra il dire e il fare. Ho scelto il tema di questa settimana, da maghi a bidoni è un attimo, perché questa mi sembra ad oggi una stagione molto significativa persino all’estero, dove vacillano le statue di Ancelotti e Guardiola – per dire – e torna di moda Unai Emery, dove Kompany e Slot stupiscono sbucando dal nulla, dove Flick sembrava un eretico a Barcellona e Luis Enrique in Champions è al 25° posto mentre Brest e Lilla sono al 7° e all’8°.
Ma facciamoci gli affari nostri in Italia. Gasperini non fa che confermare il grande lavoro di questi anni a Bergamo: è un fatto che in quella città si possa lavorare senza pressioni (l’unico a infonderle è lui…), puoi vincere un solo (grandissimo!) trofeo in 8 anni, puoi accettare che via dall’Atalanta nessuno dei suoi gioielli diventi un top-player in nessuna squadra, ma sul gioco, sulla determinazione e comunque sui risultati dei nerazzurri c’è poco da dire. Oltretutto in una realtà multietnica dove la comunicazione dev’essere tutt’altro che semplice.
La scommessa di Antonio Conte per certi versi non era così ardua: riportare più su il Napoli finito decimo a 41 punti dall’Inter nel campionato scorso. Oggi è lì dopo una partenza falsa, ha una sua anima, una sua fisionomia, una sua identità nonostante la perdita di Osimhen e un Lukaku convincente a (pochi) sprazzi.
Il destino di Simone Inzaghi è quello classico di un uomo alla guida dell’Inter: il pubblico è esigente, insofferente, loggionista si diceva una volta. Applaude con enfasi anche la più piccola impresa, ma critica e ti scortica al minimo passaggio a vuoto. Così, nonostante lo scudetto, una finale di Champions, Coppe Italia e Supercoppe, lo scudetto perso nel 2022 e la sua gestione del turnover e dei cambi è costantemente nel mirino.
Fiorentina e Lazio sono al momento le due sorprese più luminose. Palladino ha fatto un salto all’apparenza non vertiginoso tra Monza e la Toscana, nel senso che esiste naturalmente un divario tra i due club e le loro differenti ambizioni, ma in assoluto non sulla scala dei valori. I viola nelle ultime stagioni hanno disputato 2 finali di Conference (2023 e 2024), una finale (2023) e 2 semifinali (2022 e 2024) in Coppa Italia con Italiano in panchina. Mai così competitivi da decenni, anche se in campionato le soddisfazioni sono ondivaghe. Con una squadra tarata per un ambizioso centroclassifica, attraverso equilbrio e continuità Palladino è attualmente 4° a 3 punti dalla vetta. Sta (ri)valorizzando talenti che apparivano perduti, a cominciare da Kean in un ambiente caldo, polemico, esigente, da sempre ambizioso perché innamorato ma aspramente critico.
Marco Baroni, al culmine di una carriera di retrovia tra Pescara, Novara, Benevento e Frosinone, Cremonese, Reggina, Lecce e Verona, ricorda il Pioli milanista: ha trovato l’habitat ideale per le sue idee, ha fatto uno step verso l’alto nella mentalità insieme con la sua squadra, sembra integrarsi perfettamente al mondo Lazio quinta a pari punti con la Fiorentina e a ridosso del podio. Squadra ordinata, senza stelle, perduti Immobile, Felipe Anderson e Luis Alberto oltre a qualche altro calibro delle ultime stagioni, l’allenatore (fiorentino di nascita) ha spolverato Castellanos e Dia in un attacco che si avvale del sostegno di piacevolissime intuizioni con difesa e centrocampo ben assortiti. Ed ecco brillare Nuno Tavares, Noslin, Nuno Lopez, Tchaouna, l’ottimo Bashiru.
Fuochi di paglia? Non danno questa impressione, il bilancio di Natale è ampiamente positivo, ma maggio è molto lontano ancora. Semmai, Palladino ha il vantaggio – rispetto a Baroni – di un presidente pacato come Commisso e non imprevedibile come Lotito, sebbene il carisma di quest’ultimo all’interno della sgangherata Lega lo preservi da repentini colpi di testa.
Infine, Motta e Fonseca. Juve e Milan. ll lavoro fatto al Genoa, allo Spezia e la straordinaria qualificazione in Champions ottenuta al Bologna, hanno certificato la bontà delle idee del tecnico brasiliano (naturalizzato italiano) e del suo modo di applicarle. Era pronto per una grande e sarebbe stata la prima scelta rossonera, se a un certo punto non fosse tornata l’idea della conferma di Pioli che ha ritardato gli accordi con Motta, nel frattempo diretto a Torino. Città dove l’asticella rispetto a quelle liguri ed emiliana è ben più alta, la scalata ben più ripida. I bianconeri sono ottavi a 7 punti dalla vetta, hanno pareggiato ben 9 partite su 15 in campionato, hanno appena raddrizzato il piazzamento Champions con la brillante vittoria sul Manchester City, in soldoni non convincono. Servono tempo e pazienza, ma a mio avviso la squadra è incompleta a centrocampo e corta in attacco. Vanta molti eccellenti prospetti, ma nessun fuoriclasse. Con questi Motta deve e dovrà fare.
La situazione di Fonseca è la più burrascosa, la più labile dal punto di vista della forza societaria e della squadra poiché l’allenatore non pare avere alle spalle nessuna delle due. Lo ha dichiarato lui stesso dopo l’ennesima partita blanda dei rossoneri contro la Stella Rossa: io lavoro duramente, qualcun altro forse no. Le idee del portoghese non sono ancora chiare, la sua filosofia di gioco neanche, ma il problema più grande mi pare che il Milan se lo porti appresso dal dopo-scudetto di Pioli. Mi riferisco ai limiti caratteriali, di personalità, leadership, appartenenza di un gruppo che è rimasto infantile, imberbe, senza maturare, senza smaliziarsi. Senza fame di vittorie, così come ogni tanto appare anche la linea editoriale.
Alla faccia dei 72.000 che ci credono ancora ogni volta che la squadra gioca a San Siro.
Luca Serafini è nato a Milano il 12 agosto 1961. Cresciuto nella cronaca nera, si è dedicato per il resto della carriera al calcio grazie a Maurizio Mosca che lo portò prima a “Supergol” poi a SportMediaset dove ha lavorato per 26 anni come autore e inviato. E’ stato caporedattore a Tele+2 (oggi SkySport). Oggi è opinionista di MilanTv e collabora con Sportitalia e 7GoldSport. Ha pubblicato numerosi libri biografici e romanzi.
Una risposta
Un pezzo Polaroid lo definirei grandissimo Luca! Un album fotografico dedicato ai nostri attuali trainers rimarcante storia, caratteristiche e prestazioni.
Fuori dal coro il nostro Fonseca decisamente un emblematico e triste comico lusitano ormai di fronte al più classico dei dilemmi umanitari: “Essere o non essere?”
Un caro saluto.
Massimo 48