Il dibattito sulla costruzione dal basso è una creatura recente, nata e cresciuta nell’ultimo decennio, con le sue fazioni accese come guelfi e ghibellini al tempo dei Comuni. Eppure, il concetto non nasce ieri: le sue radici affondano nel primo decennio degli anni Duemila, quando il calcio cominciava a intravedere un nuovo orizzonte. L’esempio più luminoso? Il primo Barcellona di Guardiola, un’orchestra capace di suonare spartiti mai uditi prima, scavando un solco tra sé e gli avversari. Il suo apice? La stagione 2010-2011, quando quel gioco armonioso e innovativo toccò le vette del sublime.
Molti allenatori hanno seguito quella che qualcuno ha frettolosamente bollato come una moda. Ma il “guardiolismo” non è affatto una moda: è un modello, un codice calcistico che ha scardinato vecchie logiche, ridisegnando l’idea stessa di gioco. Questo paradigma, fatto di geometrie e movimenti sincronici, è stato declinato nei contesti più disparati, adattandosi con sorprendente versatilità. In Serie A, uno dei primi a declinarlo con sapienza è stato Maurizio Sarri, ai tempi dell’Empoli, dove ha tracciato le prime pennellate di un calcio che avrebbe poi sedotto platee ben più ampie.
Nel 2014-2015, due carissimi amici, i gemelli, mi invitarono con insistenza a seguire le partite di Maurizio Sarri, allora condottiero di un Empoli che, sulla carta, era tra i più fragili del massimo campionato. Eppure, il tecnico di Figline trasformò quella banda di gregari in un’orchestra, salvandola con serenità e, soprattutto, incantando i critici con un calcio spumeggiante, moderno, figlio di geometrie e sincronismi ma, soprattutto di conoscenze. Le vittorie contro le big non furono colpi di fortuna, ma la logica conseguenza di un gioco che sovrastava la concorrenza per idee e coraggio, riscrivendo il copione della salvezza.
E così Sarri è finito al Napoli, scelto come un pescatore sceglie la rete più robusta per domare il mare. Ha trovato una squadra spenta, orfana di Champions, trasformandola in un’orchestra che suona il calcio come fosse una sinfonia. Al completamento del triennio, la sua creatura ha raggiunto 91 punti in campionato, un traguardo che altri chiamerebbero gloria. Ma qui, nell’Italia del malcostume, dove l’apparenza vale più della sostanza, Sarri è divenuto bersaglio di scherno perché, dicono, mancavano i trofei. Gli stessi che oggi alzano il sopracciglio su De Zerbi, trattandolo come un semplice clone di Guardiola. La bellezza, sembra, è sempre un lusso che non tutti sanno apprezzare.
Chi osserva con più attenzione non può ignorare che i tecnici citati hanno un gioco intriso di tratti distintivi, come pennellate di un artista ossessionato dalla perfezione. Eppure, c’è un filo che li unisce: la celebre “costruzione dal basso”. Da notare, però, che la regola introdotta nel 2019, quella che permette ai difensori di giocare il pallone dentro l’area sul rinvio, rende tutto più agevole, come se il campo si fosse allargato per loro. I difensori del primo Guardiola o del Sarri dei giorni di gloria, invece, dovevano danzare su una corda più stretta, senza quel piccolo aiuto del regolamento. Ma forse, proprio in quell’assenza, c’era la bellezza più feroce, il rischio che faceva battere il cuore.
Il calcio, diceva qualcuno, è la metafora della vita: fatto di audacia, errori e improvvise illuminazioni. La costruzione dal basso ne è l’incarnazione moderna, un gesto che sfida la paura e celebra l’intelligenza. È un invito a ballare sotto la pressione avversaria, a tessere trame là dove un tempo si calciava via il pallone senza pensarci due volte. Non è solo una moda tattica, ma una filosofia che trasforma i difensori in registi e i portieri in pensatori. Le tesi universitarie non lasciano dubbi: costruire dal basso permette di superare linee di pressing con eleganza, trovando spazi nascosti e creando superiorità numerica. È come costruire un ponte sopra il caos, un passaggio che collega la difesa all’attacco con precisione geometrica. I gol che nascono da questa danza sono un inno al gioco, frutto di un’intelligenza collettiva che si muove come un’orchestra ben accordata.
Eppure, ogni grande idea ha i suoi rischi. La costruzione dal basso è un gioco per cuori forti, perché un errore può trasformare il sogno in incubo. Il pressing avversario, spietato e affamato, aspetta solo un controllo sbagliato, una decisione ritardata o un corpo mal posizionato per punire. Ma qui sta il paradosso: i gol subiti raramente sono colpa del sistema. Spesso sono figli di errori umani, di scelte affrettate o di movimenti che tradiscono l’intenzione iniziale. La costruzione dal basso non sbaglia; a sbagliare è chi non la interpreta con la cura e la maniacalità necessarie.
Non è una questione di filosofia, ma di esecuzione. Quando funziona, è un’opera d’arte; quando fallisce, diventa un bersaglio facile per critiche e luoghi comuni. “Non vale la candela”, dicono i nostalgici del lancio lungo. Nel suo libro “Il mio calcio eretico” Filippo Galli ha addotto l’esempio di un gol preso dal Milan sul susseguirsi di un’azione partita da un lancio lungo di Maignan. Il calcio, come la vita, non cresce nella paura. Cresce nel rischio calcolato, nel coraggio di provare, persino di sbagliare.
Un dettaglio che spesso sfugge, ma che è fondamentale per capire la costruzione dal basso: non è solo questione di passaggi che aggirano il pressing avversario. Già negli anni passati, i centrali più eleganti e tecnici trovavano altre strade, avanzando palla al piede, facendo scudo col corpo, usando fisico e slancio per spezzare la linea di pressione. Pensando a questo, mi viene in mente Franco Baresi, che considero il più grande centrale di sempre, un “costruttore dal basso” quando la definizione ancora non esisteva. La leggenda rossonera sapeva recuperare il pallone, scambiare un triangolo rapido e partire, creando superiorità numerica con una semplicità disarmante. Bastavano pochi passi e il campo si apriva, come per magia.
Si potrebbe dire, senza troppo azzardo, che quelle triangolazioni rapidissime dal basso permettevano al Milan di ottenere l’effetto di uno o più dribbling, ma senza lo sforzo fisico e mentale di cercare l’uno contro uno. Era geometria applicata al pallone, un modo di aggirare l’ostacolo con eleganza e precisione. Altri centrali, altrove, provavano a imitare quei movimenti in transizione positiva, ma il risultato era spesso confuso, lontano da quell’efficacia chirurgica. Oggi i tempi sono cambiati: si vedono meno centrali sganciarsi in avanti, più squadre disposte a rischiare, arretrando fino al portiere per attrarre il pressing avversario.
È un gioco di nervi, uno scontro tra idee di spazio, dove la consapevolezza del rischio si bilancia con la promessa di un’opportunità. Non è solo tattica, è quasi filosofia: il pallone come strumento per controllare il caos. Salvo che si presenti l’occasione per un lancio o un filtrante, il gioco mira a un’aggressione misurata dello spazio, come a scalare una montagna metro dopo metro. Certo, l’impostazione di fondo non è stata stravolta: il difensore centrale che si allarga per ricevere dal portiere resta un caposaldo. Ai tempi del Milan di Sacchi, il portiere poteva usare le mani; pochi anni dopo, ecco la rivoluzione: gli estremi difensori obbligati a giocare coi piedi. Una mutazione epocale, quasi un salto evolutivo, che ha ridisegnato il ruolo e cambiato il destino di un’intera generazione di portieri.
Il ruolo del portiere, un tempo sentinella solitaria, ha attraversato una trasformazione epocale, quasi darwiniana. Se 30 o 40 anni fa l’estremo difensore era unicamente il guardiano della porta, oggi è molto di più: una pedina centrale, un costruttore di gioco. Non che il calcio antico fosse privo di piedi raffinati tra i pali. Basta evocare nomi come Grosics e Yashin, leggende dell’Est, che già allora suggerivano una visione del portiere oltre i confini della linea di porta.
Poi, il cambio di regolamento: una piccola modifica che ha riscritto la storia del ruolo. Ed è qui che spuntano Neuer e Reina, due interpreti che hanno dato al portiere una nuova grammatica. Neuer, con la sua teatralità e le uscite da libero vecchio stampo, ha reinventato il coraggio tra i pali. Reina, al contrario, ha dipinto il suo gioco con la calma del regista, ogni passaggio un tratto di pennello su una tela invisibile. Due stili, un unico messaggio: il portiere non è più solo l’ultimo baluardo, ma il primo architetto di ogni manovra.
Ai portieri, oggi, si chiede di essere i primi registi, di accarezzare il pallone come un poeta accarezza le parole. Una virtù che un tempo li separava dal resto dei comuni mortali, come il tocco di un Baresi li rendeva artefici del destino. Ora, invece, queste qualità sono un requisito universale, un passaporto per sopravvivere nel calcio che non perdona. Ricordo un libro, trovato in una biblioteca, che elencava “le milleuno abilità di un portiere”. Una lista infinita, quasi mitologica, come se indossare quei guanti fosse un atto di fede e non solo un mestiere. E poi mi tornano in mente le parole di un allenatore che, pur non credendo ciecamente nella costruzione dal basso, disse una verità semplice e devastante: “Un portiere che sa solo parare non è davvero un portiere”. Forse è questo il loro destino: abitare il confine tra genio e sacrificio, tra poesia e responsabilità. Sempre a metà tra l’artista e il condannato, i portieri disegnano traiettorie invisibili, con l’unico dono che il calcio davvero permette: l’eterno dialogo con l’imprevisto.
Un tempo, il difensore era il custode della marcatura, l’ultimo baluardo che badava al sodo, duro e arcigno come la pietra. Oggi, però, il calcio ha cambiato pelle: alle doti di marcatura si preferiscono qualità fisiche, atletiche, e, sopra ogni altra cosa, la capacità di giocare il pallone. È una rivoluzione silenziosa che non conosce confini. Persino le Isole Faroe, nella sconfitta di misura in Macedonia, hanno insistito nella costruzione dal basso. Dal portiere al centravanti, con pochi errori e tante incursioni nell’area avversaria. Chi avrebbe mai immaginato, all’alba del millennio, che una “piccola” avrebbe scelto il palleggio anziché rifugiarsi nelle barricate? Ma il calcio, come la vita, sorprende sempre, e lo fa con una geometria che sa essere bellezza e coraggio.
In conclusione, la costruzione dal basso è una sfida continua, un gioco di equilibrio tra genio e follia. Non è per tutti, ma per chi ci crede, offre la possibilità di riscrivere la partita. E forse, nel profondo, è proprio questo il suo dono più grande: la capacità di trasformare il campo in una tela bianca, pronta a essere dipinta con visione e audacia.
BIO: VINCENZO DI MASO
Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.
Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia.
Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.
Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.
Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.
4 risposte
Bell’articolo Vincenzo! Concordo con le teorie da te pienamente descritte della moderna “new vogue” del Calcio ovvero la tanto ormai logora per l’uso “Costruzione dal basso” che a mio modesto parere è stata partorita per far scaldare un po’ di più muscoli ai vecchi numero 1! Se il calcio avesse avuto nel suo proseguo personaggi al centro della difesa quali Franco Baresi questa innovazione non avrebbe mai visto la luce!
Buona giornata.
Massimo 48
La costruzione dal basso…e’ più una moda che altro… e’ una filosofia che non può essere attuata in tutti i contesti calcistici(squadre) .Guardiola nel 2008 ci riuscì perché avere giocatori tecnicamente di un altro pianeta e soprattutto la mentalità spagnola del continuo movimento senza palla ha permesso l’evolversi di questa filosofia, ma non replicabile con giocatori normali.. poiché mancano le basi che in Spagna hanno sviluppate da anni. E’ quando parliamo di calcio offensivo parliamo di un qualcosa che la costruzione dal basso non ha nulla a che fare
Mi permetto di rispondere prima dell’autore dell’articolo, qualora volesse farlo: Caro Stefano non sono d’accordo quando lo definisci una moda, non lo sono sul fatto che non possa essere attuata in tutti i contesti e neanche quando dici non replicabile da giocatori normali. Sono d’accordo invece quando dici che “mancano le basi”. Infine se fai una buona costruzione al basso, che non significa necessariamente uscire palla al piede dal tuo terzo difensivo ma anche giocare più diretto in avanti, perchè l’avversario è venuto a pressare alto, è probabile che il tuo calcio sia efficace dal punto di vista offensivo. Ma torniamo alle basi. Mi domando: è così impossibile chiedere ai nostri giovani giocatori di giocare la palla a partire dal portiere per abituarsi dal punto di vista tecnico-tattico-emotivo a questa modalità di gioco? Credo che su ciò si debba riflettere.
Grazie per il tuo contributo Stefano. A presto.
Filippo
La costruzione dal basso non è una moda ma una necessità oramai. Il pressing è diventato più asfissiante e le squadre sono più compatte e corte. Sarebbe corretto affermare che in determinati contesti bisogna evitare rischi. Come evidenziato da dati oggettivi, si arriva in porta molto più volte partendo dal basso piuttosto che effettuando dei lanci. Oramai anche le piccole pressano e ti aggrediscono. La differenza la fa il baricentro. Con cognizione di causa, inoltre, si parla di “transizioni” attive e passive.
Credo che in Italia lo sviluppo dell’azione abbia conosciuto una chiara evoluzione. Ciò si sta riflettendo nel miglioramento dei risultati dei club in ambito europeo rispetto a 10-15 anni fa.
Sul discorso delle basi invece siamo d’accordo. Quando vedo il calcio giovanile, noto che in Portogallo le squadre under 15 partono dal basso con una certa sicurezza dei propri mezzi, a prescindere dallo status della compagine e dei calciatori. In Italia ciò non sempre avviene