Quale premessa potrebbe mai giustificare l’idea kamikaze di poter scrivere del goal che Maradona segnò all’Inghilterra nei Mondiali di Messico ’86, senza rischiare di venire risucchiati dall’infinito gorgo del “già sentito”?
Sarebbe assolutamente necessario avere la certezza di potersi aggrappare a qualcosa di sorprendente, avere la sicurezza di avere imboccato un percorso destinato verso una meta assolutamente inaspettata.
In questo disperato tentativo potrebbe fare al caso nostro un ragionamento che, apparentemente invalido, risulti alla fine accettato, oppure un pensiero che sembri corretto ma che, nonostante ciò, porti ad una deduzione contraddittoria.
In poche parole, ci serve un paradosso!
Nel corso della secolare storia della filosofia sono stati tanti gli autori e i movimenti che hanno attinto alla fonte stupefacente del paradosso, partendo dalle tesi etiche degli stoici, passando per la versione matematica kantiana chiamata antinomia, per giungere alle contraddizioni della tolleranza indiscriminata osservata da Popper.
Una delle versioni più impattanti del concetto di paradosso appartiene a Zenone di Elea, allievo di Parmenide e al servizio del quale ha concesso le sue inclinazioni logico-dialettiche, entrambi inesorabilmente risucchiati nella strenua difesa del pluralismo ontologico e del divenire.
I suoi paradossi vennero formulati in relazione alla tesi della impossibilità del moto. In tutti il fine è quello di dimostrare che accettare la presenza del movimento nella realtà implica contraddizioni logiche e che sia meglio quindi, da un punto di vista puramente razionale, rifiutare l’esperienza sensibile ed affermare che la realtà sia immobile.
Chiaramente siamo alle prese con un paradosso contro- intuitivo, un’ipotesi destinata a scontrarsi violentemente con la realtà in cui viviamo.
Tra i paradossi osservati da Zenone quello più conosciuto racconta di Achille che, forte del suo “piè veloce”, decide di concedere ad una tartaruga qualche metro di vantaggio nello sfidarla ad una gara di corsa.
Secondo il filosofo la velocità superiore del Pelide non lo porterà mai a raggiungere la lentissima rivale, perché intrappolato in una distanza infinita, un’interminabile insieme di punti che dimezzeranno sempre la loro distanza impedendo, però, il ricongiungimento.
Cosa vuol dire? Che per noi è impossibile muoverci? Che qualsiasi spostamento non ci porterebbe da nessuna parte? Nonostante ci appaia immediatamente salvifico il semplice intervento dell’esperienza di tutti i giorni, è stato necessario il genio di Aristotele per liberarci dagli incantesimi architettati dal pensiero paradossale di Zenone.
E cosa avrebbe di paradossale il goal del secolo?
Cosa ci sarebbe di sorprendente o contraddittorio in quello che si è manifestato sul terreno di gioco dell’Azteca in quel 22 giugno dell’86?
Diradatesi le nubi dell’eccezionalità e dell’emotività, dopo aver riconosciuto una giocata incredibile di un campione unico, ci verrebbe probabilmente da derubricare il tutto ad una consequenzialità inevitabile: Maradona è stato il giocatore più forte di tutti i tempi e quell’azione ne è il naturale concretizzarsi.
Nelle pieghe di questo fantastico gesto sportivo possiamo però provare a cercare qualcosa di diverso da ciò appare come scontato.
Dove si nasconde il paradosso? Dov’è la premessa che porta ad una conclusione erronea?
Nella normalità delle cose un giocatore che corre con il pallone tra i piedi, per quanto veloce e bravo possa essere, dovrebbe essere più lento di uno che corre senza doversi preoccupare di controllare l’agognatissima sfera.
“El pibe” non dovrebbe essere così tanto “piè veloce” per gli altri, soprattutto mentre viene inseguito da mezza squadra avversaria ferocemente determinata a fermarlo.
Da quando Maradona riceve il pallone inizia a gestirlo con una serie di piccoli tocchi che sembrano rappresentare perfettamente i punti infiniti che Zenone vedeva distanziare le cose.
Achille per tentare di raggiungere la tartaruga rimarrà impantanato tra il punto A e il punto B, perché tra questi due ci sarà sempre un punto C e così via fino a creare un inevitabile infinito. Allo stesso modo Terry Butcher, Peter Reid e gli altri tre giocatori inglesi sulle tracce di Maradona ci restituiscono la sensazione di essere destinati a rimanere intrappolati per sempre nella sua scia.
Molte volte ci si è spinti fino ai confini socioculturale per cercare di rendere quella giocata incredibile un po’ più umana, aggrappandosi alla stereotipia dell’etica del calcio inglese, dipinto come incline ad una durezza che non può prescindere dalla correttezza immaginando, invece, chissà quali trabocchetti da parte di calciatori tedeschi, italiani o brasiliani per stroncare quella cavalcata.
Gary Steven fu l’ultimo giocatore a tentare di raggiungere Maradona, anticipato da un ultimo decisivo tocco che sembrò voler sigillare perfettamente l’incolmabilità di quella distanza. Nessuno avrebbe mai potuto raggiungerlo!
Se in passato la realtà ci è venuta in soccorso per uscire dai miraggi innescati dal paradosso a questo punto, invece, sembra arrivare per ingarbugliarci nuovamente, mettendoci davanti ad un bivio difficilissimo, dando due ulteriori scossoni alle nostre fragili certezze.
Da una parte vediamo nitidamente il sentiero paradossale tracciato da Zenone che ci potrebbe a mettere in discussione persino il fatto che il pallone calciato da Maradona abbia mai raggiunto la rete difesa da Peter Shilton.
Dall’altra un dubbio ancora più suggestivo: ma siamo veramente convinti che, protetti dai meandri più profondi della realtà, riusciremmo mai ad immaginare Maradona raggiunto da qualcuno dei giocatori inglesi?
BIO: Davide Bellini
Sono nato a Sanremo nel 1973 e vivo a Ospedaletti con mia moglie Yerlandys e i nostri due figli, Filippo e Santiago.
Dopo la maturità classica al Cassini di Sanremo, in mancanza di alternative significative, mi iscrivo alla statale di Milano, facoltà di lingue. Galleggio per un quadriennio (in realtà è stata piuttosto un’apnea!) mentre nel frattempo la mia passione per la musica spazza via tutto e mi porta e mettere su una band di glam rock (idea geniale da avere a metà anni 90 mentre il mondo è incantato dal Grunge!). Il tempo e il talento non dirompente (diciamola così per salvaguardare l’autostima…) mi hanno aiutato a capire che il sogno della rockstar sarebbe rimasto tale. In nome di quel sogno ho passato 8 mesi a Londra e in quel periodo ho recuperato l’amore per la lettura, in particolare per la psicologia e la filosofia. Dai sogni infranti rinasce la voglia di studiare e d’iscrivermi alla facoltà di psicologia a Pavia dove mi laureo con una tesi sulla delfino terapia applicata all’autismo. Inizio a lavorare nelle scuole all’interno degli sportelli di ascolto e in centri di aggregazione giovanile. In seguito, per 5 anni, ricopro il ruolo di vice direttore di una comunità educativa per minori. Col tempo mi specializzo in psicoterapia a orientamento sistemico-relazionale. Riesco a mescolare la mia passione per lo sport con la mia professione conseguendo un master in psicologia dello sport. Dal 2011 mi dedico esclusivamente all’attività privata di libero professionista come psicologo psicoterapeuta.