STORIE DI TALENTI MAI EMERSI

Non ho mai coltivato un’intima vocazione per il calcio, benché non fossi del tutto privo di qualità. La sorte, beffarda e impietosa, mi ha instradato verso altri lidi, spegnendo sul nascere il miraggio di una carriera da calciatore. Ho calcato campetti polverosi nell’età acerba, partecipato a tornei con quella gioia rude di chi sente il pallone come un’estensione dell’anima. Ero ben piantato fisicamente, dotato di una discreta verve atletica, ma mai uno di quei talenti che stregano le tribune. Tuttavia, nemmeno uno da far arrossire i compagni: un onesto mestierante del gioco, solido e concreto, che lasciava più impronte sulla terra che nella memoria altrui.

Eppure, battendo polverosi campetti di parrocchia e anonimi rettangoli di periferia, anche fuori dai patri confini, ho incrociato ragazzi dal talento cristallino, capaci di accarezzare il sogno del professionismo. Alcuni vi hanno messo piede per un breve assaggio, altri si sono smarriti per scelte sbagliate, fragilità mentali o quegli infortuni che, come il destino, non risparmiano nessuno.

Ripenso ad Arcangelo, compagno d’infanzia e talento purissimo, di quelli che il Dio del pallone forgia una volta ogni tanto. Tuttocampista rapido come un levriero, con un dribbling che spezzava caviglie e una resistenza degna di un mezzofondista keniota. Eppure, mai un giorno di scuola calcio: un autodidatta della sfera, capace di umiliare calciatori dilettanti navigati nei tornei di quartiere. Non parliamo di giocatori qualunque, ma di gente fatta e finita, che si ritrovava impotente contro un ragazzo quasi irridente nella sua leggerezza. Il suo tallone d’Achille? Il contatto fisico. Arcangelo, uomo di lettura e poesia prima che di muscoli e scarpini, rifuggiva gli scontri come un poeta fugge la prosa. Lo accusava persino a me, conosciuto per correttezza esemplare, rimproverandomi un gioco troppo duro. Per lui, ogni intervento deciso era un atto di lesa maestà. Avrebbe potuto sfondare, certo, ma solo a patto di trovare una filosofia per sopportare i colpi e convivere con l’arte della resistenza. Invece, ha scelto i libri e le aule: un destino diverso, forse più nelle sue corde. Resta però la nostalgia di quei giorni, e il rimpianto di non averlo visto sfrecciare su palcoscenici più grandi.

Quando studiavo in Egitto, ebbi l’opportunità di allenarmi e disputare alcune amichevoli con una squadretta locale, il Montazah. Era un team semi-professionistico che, oltre ai talenti locali, accoglieva anche ragazzi stranieri. Tra loro, strinsi amicizia con tre giovani ghanesi: Basla, Joseph e Samuel. Con Basla, inizialmente, si instaurò un buon rapporto. Lo aiutai a orientarsi nella caotica Alessandria e spesso ci confrontavamo su questioni tattiche. Tuttavia, la nostra amicizia subì un brusco stop quando contestò apertamente il tecnico Yasser, reo, secondo lui, di preferire il sottoscritto nelle amichevoli al suo amico Joseph. Una scelta che, a mio avviso, aveva solide ragioni tattiche, viste da un’ottica “italiana” a cui ero abituato. Tra i tre, però, chi brillava come una stella era Samuel. Un esterno destro capace di arare la fascia con la potenza di un levriero, unito a un destro in diagonale di una precisione quasi chirurgica. In allenamento, affrontarlo era un tormento: imprendibile, ti lasciava a rincorrere il vento. Ma Samuel incarnava la triste parabola di tanti talenti inespressi: nessun osservatore giusto, nessun canale adeguato. Il suo destino è rimasto nei meandri del calcio minore, soffocando un talento che avrebbe meritato palcoscenici ben più importanti.

Una squadra. Non una corazzata, né un progetto faraonico, ma una band di uomini uniti da un pallone e un’idea: competere nel campionato di calcio a 7 portoghese. Niente sponsor, nessun proclama. Solo un nome, AC Rivoluzione, e un’anima collettiva, forgiata da Stefano Cannavacciuolo, un monzese che parla di calcio con la stessa passione con cui a casa sua si parla di risotto o cassœula. La Rivoluzione non conosce confini. È italiana, portoghese, brasiliana. È spagnola, mozambicana, tedesca. È una squadra che racconta di mondi che si incontrano sul sintetico, per sognare qualcosa di più grande.

Ma lasciatemi raccontare di quattro di loro. I brasiliani Zé Bernardo e Djones, artisti del tocco, con quel modo tutto loro di disegnare traiettorie che sembrano musica. E poi gli italiani, Edo e Ulpiano, due volti di un calcio diverso: il primo pragmatico, il secondo visionario, come se dentro di loro convivessero il rigore del Nord e la poesia del Sud, la precisione toscana e l’estro centramericano. Sì, perché Ulpiano è friulano, nato a Roma, ma ha origini anche calabresi. Edo è di padre toscano e madre dominicana.

Dopo due sconfitte iniziali, combattute con una rosa di calciatori “operai” – cuori generosi e piedi rustici – al termine di un allenamento si presenta un ragazzo brasiliano. Faccia sveglia, sorriso largo, occhi che promettono magie. “Avete bisogno di un numero 10?” chiede con naturalezza. Il nostro mister Antonio, uomo pragmatico e di poche parole, osserva i suoi palleggi per un paio di minuti, poi sentenzia: “Tu sei caduto dal cielo!”. Con l’arrivo di Djones, è cambiato tutto: vittorie in fila, salvo una gara ininfluente, e promozione in Serie A. Djones è piccolo, esile, ma la sua tecnica è un inno al calcio: controllo di palla sublime, dribbling che ipnotizzano, un tiro che sembra disegnato da un artista, fantasia che sgorga come una cascata. Troppo superiore per questi campi. Eppure, la sua storia è un rimpianto incarnato. Arrivato al Porto da ragazzo, espulso per droghe leggere. Stessa sorte in Brasile, dove il talento è rimasto soffocato dall’indisciplina.

L’ho marcato spesso in allenamento, sulla fascia. Pensavo di poterlo fermare grazie al fisico, ma era imprendibile: troppo veloce, troppo creativo, troppo avanti per chiunque. Anche i più strutturati si arrendevano. Un peccato enorme non vederlo tra i professionisti. A 30 anni, ormai, giocava per divertimento. Ah, se solo avesse avuto un’altra testa…

Zé Bernardo, brasiliano di sangue e di spirito, vantava radici italiane lontane, quasi evanescenti, che parevano scritte nel destino di chi ama il pallone. Il suo modello dichiarato era Gilberto Silva, il centrocampista dell’Arsenal che univa alla fisicità imponente una disciplina tattica quasi europea, pur senza mai tradire l’eleganza del tocco verdeoro. Era quel tipo di giocatore che ogni allenatore sogna: solido in tutto, carente in nulla, un campione della concretezza. Insieme a Lucas, il centrale connazionale, Zé Bernardo ha trovato un ingaggio in una squadra inglese il cui nome sfuma nella memoria.

Perché non ha sfondato nel professionismo? La risposta è un classico, quasi un copione già scritto: il Brasile, terra di disuguaglianze feroci, dove il talento non basta se mancano i mezzi per mettersi in mostra. Molti, come lui, sono rimasti confinati nei campi di periferia, mentre altri, più fortunati, prendevano il volo verso le big. Non riuscendo a pagarsi i biglietti degli autobus, Zé non ha avuto la possibilità di recarsi ai provini delle big brasiliane. A 22 anni, con il tempo contro, Zé Bernardo emigrò in Portogallo. Fu lì che il suo talento trovò spazio nei ranghi della nostra squadra di calcio a 7. Partita dopo partita, si impose come un gigante: non professionista, certo, ma campione vero, almeno per chi lo ha avuto accanto.

Concludo con Edo e Ulpiano, figure che sembrano uscite da un romanzo. Edo, cresciuto nel vivaio del Livorno, ha sfiorato il sogno della Serie A, per poi calcare i campi della Serie D. La sua vita, però, era un poliedro di passioni: musica, studio, una formazione che non si fermava al rettangolo verde. Ulpiano, dal canto suo, viaggiava tra la C e la D con un’anima che trascendeva lo sport: lo chiamavano “il poeta” non a caso, attratto com’era dalle arti e dalla cultura. A Lisbona, i due hanno trovato in sé l’archetipo del calciatore italiano moderno: fisicità, disciplina, intelligenza tattica. Eppure, nonostante tutto, si sono fermati nel limbo del calcio a undici. Non avevano il talento naturale dei ragazzi che ho citato in precedenza, ma con la loro dedizione e la loro testa sulle spalle hanno comunque assaporato il gusto del professionismo. Avrebbero potuto fare di più, magari affermarsi come solidi protagonisti della Serie C? Senza dubbio. Ma non tutti vivono il calcio come un punto di arrivo: per alcuni, è solo una tappa del viaggio. Si veda la storia di Gianni Comandini, l’eroe del derby del 6-0.

BIO: VINCENZO DI MASO

Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.

Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia. 

Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.

Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.

Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *