LE GRANDI SQUADRE CHE NON HANNO VINTO IL MONDIALE: L’ITALIA DEL 1990 – 2^ PARTE

Vicini ha cucito l’abito della nazionale su misura a Gianluca Vialli.

Sulla cucitura dell’abito, tuttavia, è doveroso aprire una parentesi.

Al mondiale del 1990 il calcio di casa nostra arriva dopo tre anni in cui il Milan di Arrigo Sacchi ha deliziato per gioco e risultati il mondo calcistico. Dallo scudetto vinto grazie ad un calcio innovativo per i nostri costumi, alle due coppe dei campioni consecutive seguite da rispettive intercontinentali e supercoppe, siamo in presenza di una squadra tanto vincente quanto rivoluzionaria.

La storia del calcio italiano ci insegna che, quando un club risulta dominante si è soliti traslare in nazionale il cosidetto “blocco”. E’ stato così per la Juventus nel 78 e nell’82 ed in parte per il Cagliari nel 1970 oltre, ovviamente, all’epopea del Grande Toro.

Il calcio divulgato da Sacchi, basato sull’occupazione degli spazi, sul pressing, sul fuori gioco e sul non dare respiro all’avversario, non somiglia, tuttavia, a quello di Vicini.

A ciò si aggiunga l’elevato tasso tecnico delle antagoniste del Milan: l’Inter dei record, il Napoli dei due scudetti (87-90) e della Coppa Uefa (89), la Sampdoria dominante in Coppa delle Coppe e la Juventus che, con Zoff in panchina, proprio nel 1990 ha trionfato in Coppa Italia ed in Coppa Uefa. Tutte compagini in grado di offrire alla nazionale elementi di valore.

Il blocco Milan non viene pertanto preso in considerazione con l’effetto che protagonisti di trionfi  come Virdis, Filippo Galli e Colombo vestiranno l’azzurro solo con la selezione olimpica mentre Tassotti ed Evani, sul finire di carriera, saranno convocati unitamente a Costacurta per il mondiale successivo quando alla guida degli azzurri vi sarà il loro mentore di Fusignano.

Ad osservare le cose con il senno di poi, rinunciare alla difesa dominante nel mondo può apparire un azzardo ma il mix tra interisti e milanisti, con i primi abituati a giocare a uomo ed i secondi a zona, non preoccupa il CT.

Bergomi non si discute, Baresi è leader nato e non si farà problemi a guidare il compagno di reparto Ferri.
A sinistra, poi, c’è Maldini che, dal debutto in azzurro nel marzo 88 a Spalato, è destinato a custodire il posto per tre lustri.

Mettiamoci per un attimo nei panni di Sebastiano Nela e Giovanni Francini, ottimi esponenti del ruolo oltre che scudettati degli anni 80, che prima hanno visto Cabrini impadronirsi della maglia da titolare dal 1978 al 1987 e poi Maldini dal 1988 al 2002.

Per un quarto di secolo il ruolo di terzino sinistro è stato colonizzato da quei due. Fossero nati in un’altra epoca, compresa quella attuale, avrebbero totalizzato un discreto numero di presenze in azzurro.

Ma se nel caso di Cabrini stiamo parlando “solo” di un favoloso terzino, con Maldini si va oltre.

Definirlo difensore è riduttivo, Maldini rappresenta il mix completo tra giocatore classico e moderno, senza punti deboli.

Quando scende in campo, porta sul terreno verde coordinazione, capacità di usare ambo i piedi, duttilità, colpo di testa, eleganza, correttezza, versatilità, tecnica, padronanza visiva dell’evento, capacità di comprendere il momento della gara, controllo del corpo, cattiveria, resistenza, visione di gioco e fisicità. Il tutto senza sembrare mai in affanno.

In una parola sola: classe.

Per Maldini non ci sono problemi a giocare una tipologia di calcio differente rispetto a quanto abituato a fare nel proprio club e così Vicini porta il “suo” undici all’esordio.

Il fatto di giocare a Roma lo aiuta nella protezione di colui che secondo alcuni è l’anello debole.

Giuseppe Giannini non gode di buona stampa. Sarà per quella circostanza, patita anche dal suo predecessore Antognoni, secondo cui l’appartenenza ad una squadra non di vertice (qual’è la Roma da qualche anno) fa si che ogni gara si trasformi in un esame.

Non è un mistero che molti vorrebbero Baggio al suo posto, incuranti del fatto che il giovane fuoriclasse viola abbia caratteristiche da attaccante.

La prima all’Olimpico è contro l’Austria e l’Italia gioca bene.

Anche Carnevale, il più attenzionato, se la cava bene. Anzi, a dirla tutta, entra nel vivo del gioco più di Vialli tanto che le due migliori occasioni capitano a lui che, purtroppo, le fallisce.

A venti dalla fine, quando sembra che il fortino austriaco (che ha massacrato le caviglie dei nostri attaccanti) possa tenere, si alza dalla panchina Schillaci che dopo tre minuti sblocca la gara.
1-0  è il risultato finale.

Quattro giorni dopo, contro gli USA, Vicini conferma Carnevale ma stavolta lo sostituisce dopo pochi chi minuti dall’inzio del secondo tempo di una gara in cui Vialli sbaglia un rigore e si procura un infortunio. Di Giannini è l’unico goal azzurro al termine di una partita che ci qualifica alla seconda fase ma, volendo rimanere a giocare a Roma, impone a nostri ragazzi di battere la Cecoslvacchia nell’ultima sifida del girone.

Nell’occasione Vialli marca visita e a Schillaci non si può più rinunciare. Anche Ancelotti non sta bene. Con gli USA ha giocato Berti e Vicini lo conferma anche se, dalla successiva, quel posto lo destinerà a Luigi De Agostini in seno ad un’ insolito schieramento con due terzini sinistri contemporaneamente in campo.

Carnevale, da titolare, passa direttamente fuori anche dai sedici.

Schillaci e Baggio si dividono la scena contro l’ultima edizione della Cecoslovacchia ad un mondiale. Totò sblocca la gara e per altre due settimane ad ogni suo tocco corrisponderà un goal.

Baggio, nel secondo tempo, mostra al mondo il suo talento con una rete che per cadenza, tecnica e dribbling ne ricorda una segnata pochi mesi prima al San Paolo.

Anche nel suo caso, per celebrarlo,  riportiamo la descrizione illo tempore proposta.

Se in Mancini e Totti, la giocata di prima risalta più di ogni altro gesto tecnico, il Divin Codino ha nel dribbling il proprio marchio di fabbrica. Sa essere letale nell’uno contro uno, sia che lo ponga in essere ai limiti dell’area, sia che parta palla al piede dalla propria trequarti. A vederlo non sembra un mostro di velocità. In realtà è in grado di apportare delle accelerazioni improvvise che lasciano sul posto i difensori.

E’ il più sudamericano tra i giocatori italiani.

Al dribbling efficace aggiunge una freddezza senza eguali in prossimità della porta. Quando calcia per fare goal è una sentenza.

Pallone d’oro nel 1993, sarà l’unico giocatore offensivo italiano a determinare in tre edizioni diverse del mondiale. Il trattamento che riserva alla palla è di natura“genitoriale”. Se Mancini pare accarezzarla e Totti addomesticarla, Baggio sembra proteggerla. Tende ad entrare in conflitto con gli allenatori ma, paradossalmente, toccherà l’apice con l’Italia di Sacchi. Maestro nell’esecuzione dei calci piazzati, giocherà per oltre quindici anni in condizione fisiche menomate. E’ probabilmente il numero 10 italiano che più è entrato nel cuore degli appassionati, tutt’ora secondo marcatore di tutti i tempi nella storia della nazionale (“IL NUMERO 10: LA POESIA DEL CALCIO IN ITALIA, EUROPA, SUDAMERICA E…” 2^ PARTE; www.filippogalli.com; La complessità del Calcio, 16 febbraio 2023)

Si arriva all’eliminazione diretta con i tedeschi sicuri del loro valore, i verdeoro a punteggio pieno e l’Argentina che ha superato la prima fase solo perchè risultata tra le migliori terze il che fa si che affronti il Brasile agli ottavi sconfiggendolo.

Una delle favorite salta subito.

Germania ed Inghilterra arriveranno in semifinale dall’altro lato del tabellone.

Con forza, superiorità e pragmatismo la prima.

A seguito di sfide spettacolari la seconda che supera il Belgio allo scadere ed il Camerun in rimonta ai supplementari. 

Dopo anni di grigiore, i Leoni di Sua Maestà piacciono e divertono.

Sono meno divertenti i loro supporters tenuti comunque a bada dalle forze dell’ordine.

I fantasisti in squadra (Barnes, Platt, Gascoigne, Waddle) armano il piede direzionato di Gary Lineker, elegante nei  movimenti e letale come un falco. Al suo fianco il fidato Peter Beardsley, emblema della seconda punta oggi non più in voga.

Con il Brasile fuori dai giochi, scompare la minaccia più importante dal cammino azzurro verso la finale.

C’è la Jugo che dà spettacolo con i suoi fantasisti e fa fuori la Spagna in un ottavo dagli alti contenuti tecnici. Il resto sono squadre ostiche ma spinti dal boato dell’Olimpico gli azzurri non possono tremare.

Contro l’Uruguay Schillaci si inventa il goal probabilmente più bello della sua vita prima che Serena chiuda la gara.

Il quarto di finale contro l’Eire è una partita tostissima. La decide ancora lui, Schillaci, mentre Baggio appare in calo dopo i fasti delle prime apparizioni.

Per il resto Baresi si conferma leader non solo difensivo, Maldini è in ottime condioni. Lo “zio” Bergomi è una sicurezza e Ferri pare invalicabile, con Zenga che ha parato due volte in cinque partite ma in quelle due occasioni è stato determinante. De Napoli è in crescita ma se c’è un calciatore che sta giocando su livelli eccelsi è Roberto Donadoni.

Chi ha descritto il suo rendimento al mondiale come “eccezionale” è incappato in un evidente errore perchè questo termine presuppone si tratti di un’eccezione. Ed invece, nel Milan come in azzurro, è normale per lui esprimersi su quei livelli.

All’estro, al cross e al dribbling addiziona la capacità di vedere il gioco alla pari di un regista oltre che un dinamismo sconosciuto ai suoi nobili predecessori rispetto a quali possiede la dote di utilizzare entrambi i piedi.

E’ spesso il migliore in campo.

Nonostante gli uruguagi prima e gli irlandesi poi lo riempiano di calci non si lamenta. La palla quando transita per i suoi piedi è in cassafore.

Il valzer delle sostituzioni nel reparto offensivo non lo coinvolge mai.

Arriviamo alla semifinale contro una delle versioni più dimesse dell’Argentina che, dopo il Brasile, ha sconfitto la Jugoslavia (ai rigori) nel caldo torrido fiorentino senza tirare in porta.

Siamo consapevoli che la storia del calcio sia piena di risultati ingiusti e che ciò rappresenti per alcuni un elemento affascinante.

Dovessimo, a nostra memoria, indicare una sfida dall’esito iniquo non potremmo esimerci dal menzionare il quarto di finale del 1990 tra Argentina e Jugoslavia. In dieci per oltre un’ora a causa di un doppio giallo speso per fermare Maradona, gli slavi, alla loro ultima grande recita, dominano a lungo, disegnando calcio con Stojkovic e Susic. Non contenti, esibiscono un Prosinecki che pare la continuazione di Neeskens per come determina in tutte le zone del campo.


Purtroppo per loro, Dejan Savicevic si mangia un paio di reti che solitamente segna ad occhi chiusi.

L’epilogo, con il capitano (bosniaco) Hadzibegic che fallisce il rigore, apre le porte della semifinale all’albiceleste e gli scenari di storia alla letteratura pallonara che farà coincidere la fine della Jugoslavia del calcio con l’inzio delle guerre balcaniche.

Italia-Argentina, quindi.

Una classica dei mondiali.

Nel 74 il pari ci è costato l’eliminazione, quattro anni dopo li abbiamo sconfitti a domicilio ma si sono consolati con la vitttoria finale. Nell’82 è storia nota e nell’86 è stato un pareggio più o meno annunciato.

L’Italia è più forte ma dal momento che il Dio del calcio è perfido la gara si gioca a Napoli nel regno di Diego che, ovviamente, ricorda al popolo partenopeo che quell’Italia che li snobba, talvolta li deride, è la stessa che ora si rivolge loro per chiederne il sostegno.

Non che Napoli giri le spalle agli azzurri ma di sicuro l’amore per Maradona rende il tifo un po’ più tiepido.

L’Italia è più forte. Non vi sarebbero motivi per toccare l’undici ma Luca Vialli fa sapere di essersi rimesso e che il posto gli spetta.

Vicini, riconoscente ad uno dei suoi pretoriani, gli riconsegna le chiavi dell’attacco e con loro il posto accanto a Schillaci.

Baggio siede malinconicamente in panchina ma inizialmente la scelta sembra pagare perchè il solito goal di Totò (che liscia la palla e la tocca con l’altro piede spingendola in rete) è propiziato da una conclusione al volo del sampdoriano ispirata da una pregevole giocata di Giannini.

L’Italia sembra in controllo ma la gara anziché accendersi si addormenta.

Su un’azione all’apparenza non pericolosa, l’Argentina indovina l’inzuccata con Caniggia.

Siamo a metà del secondo tempo, da lì in poi sarà la partita della paura con i sudamericani che, stretti attorno al loro capitano, ritrovano autostima mentre gli italiani si fanno assalire dalla pressione.

Ancora una volta l’Argentina porta la contesa a rigori.

Specialità in cui eccelle Goichoechea, riserva del portiere titolare Pumpido infortunatosi alla seconda partita.

Esattamente come Schillaci, Goicoechea sta vivendo i giorni più elevati della sua carriera.

L’errore decisivo è, ironia della sorte, del migliore in campo ossia quel Roberto Donadoni che più di altri avrebbe meritato un epilogo differente. Dopo il suo errore, Maradona lascia di stucco Zenga prima che anche Serena si faccia ipnotizzare dall’estremo difensore argentino.

Dopo tante notti magiche, ne viviamo una calcisticamente tragica.

Si aprono i processi al C.T., reo di aver schierato Baggio con troppo ritardo, mentre Vialli, che ambiva alla consacrazione planetaria, esce dal mondiale tristemente come il suo amico Zenga secondo alcuni colpevole nel goal di Caniggia.

Anche l’altra semifinale si conclude a rigori. A vincerla, ovviamente, sono i tedeschi che sempre su rigore (inesistente) regoleranno in finale un’Argentina che molti non volevano lì ad usurpare il posto degli azzurri.

La finale del terzo posto è partita che in molti non vorrebbero giocare ma italiani e inglesi la onorano e lo spettacolo che ne esce è gradevole.

Il mondiale dei rimpianti si chiude male per noi, molto male.

Vicini rimarrà in carica altri sedici mesi, giusto il tempo per non qualificarsi ad Euro 92.

Non avrà altre chances imporanti in carriera e sarà ricordato solo per l’esperienza azzurra.
Un percorso splendido, entusiasmante ma senza il trionfo che tutti aspettavano.

La più grande delusione del calcio italiano fa da epilogo ad uno dei mesi più belli vissuti dal nostro paese.

Un mese irripetibile e indimenticabile che chi ha avuto la fortuna di viverlo non dimenticherà mai.

Perchè quelle sono state davvero “notti magiche”.

BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.

Una risposta

  1. Alessio, o rmai è una tua specialità quella di commentare i grandi eventi e le grandi squadre. Mi hai fatto constatare quanto sia stato sfortunato Baggio nei mondiali, iniziando da quello da te proposto (Italia 90). La semifinale con l’Argentina da te richiamata (non partito titolare), l’infortunio al mondiale successivo proprio prima della finale, in cui giocò comunque menomato. Poi, in quello francese gli fu favorito Del Piero con gli esiti che conosciamo. Infine in quello coreano nemmeno convocato, nonostante chiamato a furore di popolo e con prestazioni convincenti..

    Del gruppo da te citato, nonostante non fossi milanista, amavo, oltre a Baggio, Maldini e Baresi. Fermo restando che erano tutti molto forti.

    Un altro grandissimo calciatore che tu spero abbia visto, almeno in qualche filmato, era Rivera forse anche più elegante di Maldini, che accoppiava le caratteristiche del trequartista con quelle del regista naturale, anche se non giocava da regista.

    Anche su Donadoni la penso come te.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *