HARAKIRI DELLE ITALIANE IN CHAMPIONS: È DAVVERO COLPA DELLA PREPARAZIONE ATLETICA?

Nel febbraio che ha segnato il cuore della stagione di Champions, le squadre italiane hanno mostrato una condizione fisica che, più che approssimativa, a tratti è sembrata quasi disastrosa. Milan e Atalanta, chiamate a far valere il loro nome e la loro storia, sono uscite clamorosamente contro avversarie che, sulla carta, non avrebbero dovuto nemmeno esserle vicine. Un harakiri consumato con la lentezza di un film drammatico.

Ci sono stati episodi che hanno segnato la trama, senza dubbio. L’Atalanta, ad esempio, è stata protagonista di una penalizzazione assurda, con quel rigore inesistente assegnato al Bruges al termine della gara di andata. Un colpo basso che, però, non può nascondere una verità più amara: i nerazzurri non sono riusciti a mantenere la solidità che li ha sempre contraddistinti. Il Milan, invece, ha trovato nel gesto folle di Theo Hernandez l’ennesimo tradimento, la punizione per un’espulsione che ha tolto al gruppo una risorsa fondamentale. La Juventus si è sciolta come neve al sole in quel di Eindhoven, venendo dominata in termini di intensità. Non a livello tattico, come brillantemente spiegato dal tecnico e match analyst Luca Bertolini.

Ma al di là di questi momenti, è la questione fisica che non possiamo ignorare. Le italiane, in particolare, hanno fatto fatica a reggere il ritmo contro squadre che, pur non brillando in modo clamoroso, sono riuscite a imporre la loro intensità. Squadre che nel gruppone iniziale di Champions League non avevano certo spaventato nessuno. Il Feyenoord, ad esempio, ha un valore di rosa che seppur relativamente elevato, è solo la metà di quello del Milan. Eppure, gli olandesi hanno saputo giocare con un’energia che i rossoneri, pur avendo quasi tutti i titolari disponibili, non sono riusciti a contrastare.

E poi c’è il Bruges, una squadra che, come i numeri di Transfermarkt – pur senza essere la verità assoluta – ci suggeriscono, vale un terzo dell’Atalanta. Eppure, nonostante questo, il gap tra le due squadre è sembrato essere solo sulla carta. In campo, si è visto ben altro, e il divario fisico è emerso con una brutalità che nessuno si sarebbe aspettato. Il calcio, lo sappiamo, è molto più che numeri. Ma qualche volta, i numeri raccontano una verità che le gambe, purtroppo, non sono riuscite a smentire.

Senza nulla togliere alla professionalità dei preparatori italiani, agli studi pregressi e alle competenze, l’interrogativo è lecito: come mai in alcuni momenti clou della stagione le nostre squadre faticano a tenere il passo non solo delle inglesi ma delle altre europee in generale?

La differenza con la Premier non è solo questione di denaro o di singoli fuoriclasse: alla base c’è una preparazione atletica che affonda le radici nel piano noto come “Elite Player Performance Plan”, introdotto nel “lontano” 2012 con l’obiettivo di migliorare le performance dei calciatori, in un’eterna corsa verso l’efficienza. Il programma prevede quatto funzioni di allenamento: Games programme, Education, Coaching ed Elite Performance. Programma che viene portato avanti non appena i ragazzini entrano nelle academy. Qui entra in gioco un altro aspetto, quello che riguarda il nostro calcio, il nostro “modesto” cammino nelle competizioni europee. Sì, perché se è vero che le italiane sanno partire bene, con un’autunno brillante che lascia ben sperare, è altrettanto vero che tendono a perdere smalto con il passare dei mesi. E febbraio, per una squadra italiana, è sempre un mese cruciale, quello in cui si fa sentire la stanchezza accumulata nei mesi precedenti, quello in cui la preparazione atletica entra nel vivo della sua differenza.

Basti pensare a una verità che si è ripetuta con una certa costanza, quasi una legge non scritta: i calciatori che arrivano dalla Premier League, dopo aver completato la loro preparazione con i club inglesi, in Serie A sembrano avere un altro passo. Un passo che sembra non appartenere più alla nostra realtà, ma a un’altra dimensione. È un dato che non passa inosservato. Ricordate il primo Tomori al Milan? O Loftus-Cheek, che al suo arrivo ha mostrato una potenza fisica fuori dal comune? E che dire del primo Lukaku all’Inter? O di McTominay, che ha lasciato il segno al Napoli con quella forza bruta che sembrava quasi fuori posto in un campionato che, storicamente, è sempre stato più tattico che fisico. Ho ribattezzato questo fenomeno “il boost Premier”, un piccolo sorso di energia pura che, all’impatto, ti travolge. In Premier diversi calciatori percorrono ben 13 km a partita. Il “maratoneta” principale del nostro campionato è proprio lo scozzese ex Manchester United, tra i pochissimi ad avvicinarsi a questa soglia.

C’è però una costante che non si può ignorare: dopo quell’effetto iniziale, quasi sempre, nell’annata successiva, quel dominio atletico si smorza. Il calciatore non riesce a ripetere la stessa performance a livello di forza fisica. Perché? Forse perché, superato l’effetto sorpresa, il nostro campionato ti inghiotte nella sua tattica raffinata, nei suoi equilibri che non puoi ignorare. A livello tattico, l’Italia è ancora all’avanguardia, è lì che si fa la differenza. Ma a livello fisico, il gap diventa evidente. La “dominanza atletica” che vediamo al primo impatto svanisce, come una fiamma che brucia forte ma si spegne presto.

Anche nelle annate in cui le nostre squadre sono arrivate in fondo, non sono mancate gare difficili. Lo scorso anno la Roma ha superato il Feyenoord per il rotto della cuffia. Due anni fa l’Inter ha superato il Porto per il rotto della cuffia. Le squadre italiane, purtroppo, non riescono a mantenere il ritmo della Premier o di altre leghe più dinamiche perché, forse, non riescono a trovare quella continuità che deriva da un lavoro fisico diverso. Non che i nostri preparatori atletici non siano all’altezza: la verità è che c’è una diversa concezione del lavoro fisico. L’approccio della Serie A, che per anni ha dato spazio a una visione più tattica e meno fisica del gioco, ha forse avuto una resistenza nel modificare il proprio approccio in tal senso. I nostri preparatori sono riconosciuti per le proprie competenze, ma, in fondo, il calcio italiano ha sempre privilegiato l’aspetto tecnico e mentale a quello della forza pura.

Ecco perché, nei mesi più freddi dell’anno, quando il fisico deve venire incontro al ritmo serrato delle competizioni europee, le squadre italiane tendono a calare. Non per mancanza di valore, ma per una questione di mentalità. Le formazioni inglesi, che mettono l’intensità al centro di tutto, non si fermano mai. L’approccio tattico delle nostre squadre, per quanto raffinato, spesso non basta a sostenere il passo nei momenti decisivi. Ed è qui che entra la fatica, la carenza di lucidità nei momenti chiave, quella che ci fa perdere terreno proprio quando la stagione entra nel suo cuore pulsante.

E poi c’è un altro aspetto, messo in luce da Andrea Fiore sul nostro blog e rilanciato da Filippo Galli. Il Feyenoord e il PSV non si sono poste troppe domande, non hanno indugiato in arrovellamenti filosofici su superiorità o inferiorità, su quanto e come fosse possibile esprimere il loro calcio. Hanno giocato con un solo dogma: essere la versione migliore di sé stessi. Anche quando la realtà sembrava negarglielo.

E qui arriva il punto dolente. In Europa, quasi ovunque, questa è la direzione presa, il solco tracciato. Ovunque, tranne in Italia. Perché? Perché restiamo ostaggio di un calcio che pare prigioniero di sé stesso, delle sue gabbie tattiche, dei suoi calcoli ossessivi. È come se si temesse l’ignoto, il caos, la bagarre. Ma la storia ci insegna che i grandi geni hanno sempre sfidato i limiti del loro tempo, abbattendo confini considerati invalicabili.

Nel nostro calcio, invece, il limite diventa dogma, il dogma diventa status quo. E quando il gioco si fa selvaggio, quando la partita si trasforma in una battaglia senza schemi prestabiliti, raramente ne usciamo vincitori. Servirebbe un cambio di paradigma, un atto di coraggio. Perché il calcio moderno non aspetta nessuno. E noi, al momento, siamo ancora fermi a guardarlo passare.

Le italiane, per quanto possiedano una cultura calcistica che continua a essere tra le più raffinate al mondo, non riescono sempre a tenere il ritmo delle rivali, più fisiche e più rapide nel passare dal piano tecnico a quello fisico. Il passo italiano resta più lento in questo periodo dell’anno. E vi sono esempi pratici che lo dimostrano. Certo, la preparazione fisica è perfettibile, ma il problema va scandagliato ad ampio raggio…

BIO: VINCENZO DI MASO

Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.

Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia. 

Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.

Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.

Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *