Parlare della rappresentazione femminile nel giornalismo sportivo italiano significa inevitabilmente confrontarsi con il sistema che la ospita. Un sistema che, ancora oggi, tende a essere omogeneo nei corpi, nelle voci e nei toni. Un sistema che si racconta come inclusivo, ma che spesso seleziona secondo criteri vecchi, anche quando li veste con parole nuove. Non si può più dire, come si faceva un tempo, che le donne “non ci sono”. Oggi le donne ci sono eccome, in studio, alla conduzione, nei podcast, nei prepartita, nelle interviste bordocampo. Diletta Leotta conduce. Giorgia Rossi conduce. Monica Bertini conduce. La loro è una presenza centrale nel dispositivo narrativo televisivo. Il problema non è la loro funzione apparente, ma il tipo di presenza che viene loro richiesta. Il modo in cui conducono. L’immagine che incarnano. Il margine – spesso molto limitato – che hanno nel poter uscire da un certo modello.
A queste professioniste è richiesto di essere impeccabili, fotogeniche, rassicuranti. La competenza è ammessa, purché non disturbi. Non siamo più davanti a un’esclusione, ma a un’inclusione condizionata. La donna non è assente dal racconto, ma presente a certe condizioni. Accettata, purché performi un determinato ruolo. Che non è necessariamente decorativo, ma raramente è disturbante.
Questa dinamica si inserisce in un contesto più ampio: il giornalismo sportivo mainstream italiano è, da sempre, orientato verso un modello narrativo ipermascolinizzato, dove la voce alta e il commento definitivo dominano. Una palestra retorica in cui chi ha dubbi o parla piano semplicemente non trova spazio. Il racconto sportivo è costruito su un’impalcatura maschile, e le figure femminili che vi si inseriscono devono adattarsi a quel codice, piuttosto che modificarlo.
Il risultato è che, pur in presenza di donne competenti, il pubblico viene educato a guardarle prima come figure visive, poi eventualmente come voci professionali. Il corpo precede la parola.
E allora non si può parlare davvero di progresso. Si può parlare di trasformazione. Ma non necessariamente di emancipazione. Perché il punto non è solo “esserci”, ma come si è presenti, in che modo, con quale margine di azione.
E questo è ciò che l’articolo proverà ad raccontare. Non con certezze, ma con osservazioni. Non con ricette, ma con domande.
Per capire la rappresentazione attuale della donna nel giornalismo sportivo italiano, conviene fare un passo indietro. Non tanto per nostalgia, quanto per ricostruire la linea lungo cui si è evoluta – o trasformata – quella figura. Negli anni ’90, la presenza femminile nel racconto sportivo televisivo era marginale e fortemente stereotipata. Le poche figure visibili erano spesso relegate a ruoli secondari, di contorno. Il binomio dominante era: l’esperto parla, la donna accompagna.
Una prima vera rottura avviene con l’affermazione di Ilaria D’Amico. A partire dai primi anni 2000, D’Amico diventa un volto autorevole del racconto calcistico su Sky. Non solo conduce, ma modera dibattiti, guida trasmissioni di approfondimento, intervista allenatori, dirige la conversazione. La sua figura rappresenta un modello di competenza che si impone anche grazie a un contesto, quello di Sky, che in quel momento punta alla costruzione di un linguaggio sportivo più più verticale, si potrebbe dire più “internazionale”.
D’Amico non è una “presenza”. È una voce con controllo editoriale. In un sistema comunque maschile, rappresenta un’eccezione di rilievo. Ma è rimasta, appunto, un’eccezione. Perché negli stessi anni – e ancora di più nel decennio successivo – cresce un altro modello: quello in cui la figura femminile è ipervisibile ma meno autonoma. Un modello in cui il ruolo femminile viene reinserito dentro una logica di spettacolo. È la fase in cui si afferma la televisione calcistica del post-reality: scenografie lucide, tavoli infiniti, studio come teatro di posa, dove l’estetica conta almeno quanto la scaletta.
Dentro questo contesto si colloca la figura di Diletta Leotta. La sua ascesa professionale è legata al nuovo modo di raccontare il calcio televisivo, dove la differenza tra informazione e intrattenimento si fa più sottile. Leotta arriva da Sky, poi si sposta su DAZN, seguendo la traiettoria delle nuove piattaforme. Non è una giornalista in senso stretto: è una presentatrice, una conduttrice, una figura ibrida, perfettamente integrata nel linguaggio del calcio come contenuto pop.
Con Leotta si impone un nuovo archetipo: non la donna che accompagna, ma la donna che conduce, sì — ma secondo modelli di esposizione visiva e racconto personale che rimandano all’universo social. Il baricentro si sposta. Non si tratta più di essere preparate, ma di apparire compatibili con l’immaginario vincente. Curare la propria estetica, avere un profilo Instagram da milioni di follower, partecipare a eventi, podcast, campagne. La competenza è accessoria. O, per dirla meglio: è utile solo se funziona dentro la cornice dell’immagine.
In parallelo, emergono altre figure. Giorgia Rossi, oggi a DAZN dopo gli anni in Mediaset, è una delle giornaliste sportive più presenti sul piccolo schermo. Monica Bertini, ancora in Mediaset, si è ritagliata uno spazio riconoscibile. Nello stesso tempo, fuori dal grande schermo, cresce una generazione di giornaliste e croniste che lavorano con rigore e profondità, ma che difficilmente arrivano al mainstream. Alcune scrivono su testate digitali, seguono la Serie C o i Dilettanti, raccontano lo sport “minore”. Alcune fanno radiocronache, altre analisi statistiche. Spesso non hanno visibilità, non vengono chiamate in TV, non conducono rubriche su YouTube o Twitch. Non per mancanza di competenza, ma perché non rientrano in un modello comunicativamente spendibile.
E così si è creata una frattura: tra chi lavora nello sport con strumenti tradizionali e chi viene selezionata per rappresentarlo nella sua versione mainstream. È una frattura netta, e quasi sempre non a favore della qualità.
Se negli anni Novanta la selezione delle figure televisive era prerogativa esclusiva delle redazioni, oggi è fortemente condizionata da un altro attore: il pubblico digitale. Più precisamente, da ciò che quel pubblico produce e consuma. La visibilità di una figura del giornalismo sportivo e in particolare di una figura femminile, non si costruisce più (solo) in redazione. Si misura in follower, engagement, compatibilità algoritmica.
Instagram, TikTok, YouTube, podcast: sono questi i nuovi campi dove si gioca il riconoscimento. E in questi spazi, la narrazione personale vince su quella professionale. Non conta cosa sai del calcio. Conta come racconti te stessa attraverso il calcio. O, in molti casi, accanto al calcio.
Diletta Leotta è il modello più compiuto di questa nuova grammatica. Non solo perché ha oltre 9 milioni di follower su Instagram, ma per il tipo di narrazione che propone: una sequenza di estetica quotidiana, racconti personali, gestazione documentata, podcast sulla maternità, inquadrature sempre impeccabili. Il calcio c’è, certo, ma come sfondo. Come scenario emotivo. L’ascesa di Leotta non è legata a una visione editoriale o a un punto di vista. È legata a una capacità comunicativa che fonde lifestyle, glamour e partecipazione affettiva. Un modello perfetto per la logica del mercato.
E il mercato ha risposto. Sponsorizzazioni, progetti editoriali, centralità nei palinsesti. Non è un caso isolato: Eleonora Incardona (DAZN), Michela Persico (giornalista e compagna di Daniele Rugani), Ludovica Pagani (influencer con legami con il racconto sportivo) sono altri esempi di figure ibride, a cavallo tra conduzione, immagine e visibilità social. Tutte molto seguite, tutte con un’identità pubblica fortemente visuale, raramente legata all’approfondimento calcistico.
La questione non è morale. Non si tratta di giudicare. Ma di osservare che tipo di competenze vengono oggi premiate, e quali restano marginali. Le figure più visibili del giornalismo sportivo femminile mainstream non sono necessariamente le più competenti, ma le più performative. E tutto questo questo vale anche per i colleghi uomini, certo. Ma con una differenza chiave: agli uomini si chiede di essere brillanti, alle donne si chiede di essere anche attraenti. O meglio: non basta essere brave. Bisogna essere compatibili con l’immaginario dominante. È una discriminazione mascherata, ma pervasiva.
I risultati di questo sistema sono evidenti: poche giornaliste che si occupano di tattica vengono chiamate nei salotti televisivi; poche analiste di mercato vengono invitate nei podcast sportivi di tendenza; poche croniste locali, nonostante la preparazione, riescono a entrare in un circuito che oggi valorizza la riconoscibilità più dell’autorevolezza.
Nessun discorso sulla rappresentazione femminile può prescindere da chi la consuma. Perché la forma che assume un volto pubblico, oggi più che mai, è modellata anche dal tipo di attenzione che riceve. Non è un rapporto unidirezionale: è un gioco di specchi. Le figure visibili vengono selezionate, ma anche plasmate, dalle risposte che generano. E queste risposte dicono molto di noi. Forse tutto.
Osservare i commenti sotto i post delle giornaliste sportive mainstream è un esercizio necessario, anche se spesso sconfortante. Non si tratta di leggere opinioni calcistiche, né di ricevere feedback professionali. La maggior parte dei commenti ha a che fare con il corpo. La figura professionale viene costantemente ridotta a figura sessuale. Spesso in modo esplicito, volgare, non richiesto.
Questa dinamica – che si ripete, che si amplifica, che diventa in certi casi virale – non è un effetto collaterale. È un elemento strutturale del sistema. La visibilità femminile, nel contesto sportivo italiano, è ancora oggi largamente fondata su un desiderio maschile non rielaborato e spesso aggressivo. Le donne che raccontano il calcio vengono continuamente ricondotte al loro aspetto fisico, anche quando non lo mettono in primo piano. Anche quando lavorano con rigore. Anche quando non giocano con l’estetica.
È una forma di controllo culturale, prima ancora che di molestia. Perché implica che la presenza femminile sia sempre, comunque, leggibile attraverso la lente del piacere maschile. Non come voce autonoma, ma come superficie sensibile al giudizio. Il risultato è un campo minato: se sei troppo visibile, “te la sei cercata”; se non lo sei abbastanza, “non funzioni”. E se il linguaggio è violento, tanto peggio. Perché questa violenza, nella narrazione collettiva, è ancora considerata normale. Oppure marginale. Un fastidio da moderare, non un problema strutturale. In fondo – si dice – “è così sui social”.
Il pubblico, in tutto questo, non è un’entità astratta. È parte del dispositivo. Il successo di una figura mediatica è oggi misurato anche in base alla sua capacità di “generare reazione”. Non importa quale. L’interazione diventa metrica. E la metrica diventa selezione. Chi riceve più attenzione ha più spazio. E se l’attenzione passa attraverso l’estetica, il sistema si chiude su se stesso.
Per questo non basta aumentare il numero delle donne nei media sportivi. Bisogna cambiare le regole dell’ingaggio. Bisogna chiedersi che tipo di ascolto viene riservato a quelle voci. Che tipo di linguaggio si usa. Che tipo di aspettative si proiettano.
Finché il pubblico continuerà a interagire con la figura femminile come con un oggetto di desiderio — più o meno esplicitamente — sarà molto difficile scardinare il modello dominante. E non sarà sufficiente la buona volontà delle redazioni, né la preparazione delle professioniste.
C’è una parola che ricorre sempre più spesso nei discorsi intorno allo sport: inclusività. È diventata un mantra. Ogni campagna pubblicitaria, ogni progetto editoriale, ogni palinsesto aggiornato sembra dover dimostrare di essere “aperto”, “accogliente”, “rappresentativo”. Ma la domanda è semplice: inclusivo di cosa? E soprattutto, a che condizione?
Nel giornalismo sportivo italiano, la presenza femminile è oggi uno dei principali argomenti a favore di questo presunto rinnovamento. I numeri vengono citati: “ci sono più donne che prima”, “ci sono donne alla conduzione”, “ci sono figure femminili nei programmi di punta”. Tutto vero. Ma se ci si ferma qui, si rischia di scambiare la superficie per sostanza. L’aumento della visibilità non coincide automaticamente con un cambiamento del paradigma. Anzi, spesso lo nasconde.
Prendiamo un caso emblematico: le telecronache con voci femminili. In alcune partite, oggi, capita di sentire una donna al commento tecnico o alla bordocampo. Ma qual è la proporzione? E qual è la narrazione che accompagna quella presenza? Spesso è ancora una “novità”, un “esperimento”, un “segnale di apertura”. La donna è lì, ma non è normalizzata. È eccezione. E come tale, deve dimostrare qualcosa ogni volta. Nel 2025.
L’inclusione vera sarebbe quando la presenza femminile non facesse più notizia. Quando il pubblico non si soffermasse sul tono della voce, sulla dizione, sull’aspetto, ma solo su cosa viene detto. Quando non ci fosse più bisogno di annunciare la “prima donna a…”, perché la cosa sarebbe statisticamente irrilevante. Ma quel momento non è ancora arrivato.
Nel frattempo, il sistema si autocelebra. Si racconta come progressista. Ma non cambia. Si limita a integrare figure che non mettono in discussione l’ordine delle cose. Il talk resta maschile nella struttura. L’umorismo resta maschile nel tono. Le gerarchie restano maschili nella distribuzione del potere editoriale. Le donne ci sono, ma non hanno le chiavi della narrazione. Sono ospiti. Benvenute, ma sempre ospiti.
Per ogni figura mediatica femminile che occupa la scena mainstream, esistono decine di professioniste che lavorano sullo sport in modo serio, strutturato, competente. Donne che non appaiono nei salotti televisivi e che non pubblicano (per scelta) reel con outfit coordinati. Ma che raccontano lo sport, e lo fanno con strumenti analitici, esperienza e sensibilità.
Alcuni nomi andrebbero citati, anche solo per onestà intellettuale. Come Giulia Zonca, una delle migliori firme dello sport italiano, penna de La Stampa, capace di tenere insieme scrittura e profondità, raccontando lo sport come fenomeno culturale. Oppure Francesca Benvenuti, che su Mediaset ha sempre dato prova di equilibrio tra conduzione e contenuto, senza mai cadere nei cliché visivi dominanti. O ancora Sara Meini, storica inviata Rai per la Fiorentina, competente, preparata, sobria, ma lontana dai riflettori più brillanti.
Ci sono anche figure giovani che si stanno imponendo con mezzi propri: piccole realtà editoriali, progetti audio, newsletter, spazi alternativi dove si costruisce un altro racconto possibile dello sport al femminile — fatto da donne, ma non solo per parlare di donne. Per parlare di gioco, di mercato, di storia, di calcio giocato. Di sport, insomma, non di identità di genere.
Il problema non è l’assenza di queste figure. È la loro mancata centralità nel racconto dominante. Quando si parla di “donne nel giornalismo sportivo”, il dibattito si ferma quasi sempre ai volti più noti. Alle figure più esposte. Ma è una rappresentazione falsata. Una riduzione.
Ed è una riduzione che ha effetti reali. Perché i modelli visibili sono quelli che influenzano le percezioni. Se l’unica rappresentazione femminile nello sport è quella patinata, telegenica, social-friendly, sarà difficile che una giovane appassionata pensi di poter diventare una reporter da campo, o una commentatrice tecnica, o una firma di rilievo. I percorsi possibili si restringono. Si distorcono. Diventano altro.
Per comprendere fino in fondo la rappresentazione femminile nello sport italiano — e in particolare nel suo racconto — è necessario affrontare la questione da un livello più profondo: non solo comunicazione, ma cultura. La cultura sportiva italiana è ancora largamente costruita su un impianto maschile, e spesso maschilista. Non necessariamente in forma brutale o volgare. Ma in modo strutturale e normalizzato.
Il calcio, che è il cuore pulsante dell’immaginario sportivo nazionale, non è mai stato neutro. È stato, e in larga parte è ancora, un rito collettivo fondato su codici maschili: il gruppo, la competizione, la forza, la sfida, la leadership. È un’arena simbolica in cui si celebra una certa idea di virilità: non quella intellettuale, riflessiva, ma quella istintiva, battagliera, aggressiva. E se cambia – e qualcosa sta cambiando – lo fa molto lentamente, con resistenze evidenti.
Dentro questo spazio, le donne sono da sempre viste come esterne, o al massimo accessorie. Possono tifare, certo. Possono esserci. Possono perfino giocare, come avviene oggi in misura crescente. Ma la loro presenza non è ancora completamente interiorizzata. È tollerata, non normalizzata. È commentata, non metabolizzata. E anche quando vengono accettate, lo sono spesso a patto che non cambino troppo il quadro. Che si adattino, che imparino il linguaggio, che si muovano dentro le regole.
Questa struttura, ovviamente, non riguarda solo le donne. Riguarda anche gli uomini. Riguarda la mascolinità stessa, e il modo in cui viene performata nel contesto sportivo. Perché anche gli uomini sono costretti dentro un modello: devono essere forti, sicuri, decisi, coinvolgenti. Non possono esitare, non possono mediare, non possono – in molti casi – nemmeno ascoltare. La retorica dell’opinionismo muscolare è soffocante per tutti. Ma per le donne è doppiamente vincolante: perché devono inserirsi in un modello pensato contro di loro, senza gli strumenti per modificarlo.
È difficile chiudere un discorso così. Non solo per la complessità del tema, ma perché la natura stessa della questione impone uno sguardo instabile e incompiuto. Parlare della rappresentazione femminile nel giornalismo sportivo italiano significa toccare decine di livelli intrecciati: cultura, immagine, potere, linguaggio, mercato, desiderio. Ogni volta che si prova a stringere, qualcosa sfugge. E allora forse l’unico modo per concludere davvero è non concludere. Ma fermarsi. Guardare dove siamo arrivati. E chiedersi, con onestà, se questo racconto che ci viene proposto è davvero un segno di progresso.
La domanda non è se le donne ci sono. La domanda è: cosa devono essere, per esserci.

BIO: Vincenzo Corrado, classe ’87, è un giornalista professionista. Nato al mare e cresciuto tra la nebbia. Ha lavorato per 15 anni per il Gruppo Gedi (ex Espresso-Repubblica) occupandosi di sport e cronaca. Specializzato in storytelling, collabora con diverse testate nazionali. Da novembre 2023 è direttore della rivista sportiva Puntero. Ha pubblicato quattro libri (due belli, due così così).
Una risposta
Sistema che per molte donne va benissimo, perché diciamolo cosa facciamo noi per fare in modo che arrivi prima la testa e poi il corpo? Quanto siamo disposte a fare per avere visibilità, successo? Quanto mercifichiamo il nostro corpo per acchiappare followers? Non è che siamo noi le prime e voler cavalcare questo sistema? Temo che per poter vedere più sostanza e meno apparenza si dovrà aspettare ancora molto. Purtroppo…