Il calcio è semplice: bisogna passarla a quelli che hanno la stessa maglia. Già. Arguto. Fin troppo.
Quasi assurdo non averci pensato prima. E’ lapalissiano, incontrovertibile.
Così tanto da essere, come ogni espressione che sembra voler ricondurre e ridimensionare la qualità di pensiero alla vuota sintesi dell’ovvio, inutile e sconcertante. Direi sconfortante. Già.
Come tutte le superficiali constatazioni che non sono figlie di valutazioni intimamente riflessive e argomentative e che servono esclusivamente a dare la sensazione di aver detto qualcosa se non si è in grado di sciorinare concetti di spessore. Nell’era in cui qualunquismo e mancanza di spirito critico dominano lo scenario planetario sostanzialmente sotto tutti i punti di vista, attecchire sciorinando frasi vuote, ma dalla parvenza significativa per la mediocrità, conduce all’autocompiacimento e al convincimento delle proprie azioni (idee no, se ci fossero, va da sé, alcune cose non sarebbero in alcun modo,anche solo per amor proprio, espresse).
Per molti sembrava un concetto noto dal 1863, anno di fondazione della Football Association e, per convenzione, ufficialmente del gioco del calcio: per praticarlo, in quanto sport di squadra, bisogna usufruire del collettivo ed interagire naturalmente con i propri compagni, del medesimo colore rivestiti. Già. Per l’appunto.
Il problemino è che ciò va espresso su un terreno di gioco discretamente ampio, affrontando avversari contro i quali rendersi forzatamente protagonisti di due fasi che sottintendono una variabile incredibile di modi di attaccare e di difendere, individuali e di reparto, con disposizioni, tempi di gioco, occupazione degli spazi, indispensabili movimenti senza palla e conseguenti linee di passaggio che scaturiscono dalla valutazione e dalla preparazione di chi li sancisce, guidando gli attori protagonisti; altresì con regole che inevitabilmente suggeriscono dinamiche a cui bisogna attenersi ( alcuni hanno parlato di eliminare il fuorigioco: è la regola che fa sì che esistano reparti, schieramenti, moduli, linee, principi, ruoli, lunghezze, altezze e concetti…mi fermo qui, credo basti).
Non è una diatriba vuota quella fra “giochisti” e “risultatisti”: è vuota la definizione, l’etichetta figlia delle necessità di dover catalogare tutto, propria della modernità sociale che tende a collocare, non il contenuto.
Come se chi prediligesse l’aspetto dello sviluppo del gioco e la voglia di direzionare la partita determinandone maggiormente l’andamento, in virtù della propria “imposizione” filosofica, voglia con minor enfasi ottenere il risultato. Strana interpretazione.
Per lo spettacolo bisognerebbe andare al circo: implicitamente, or dunque, lo spettacolo sarebbe nemico del risultato? Tentare di giocare a calcio in maniera più dominante ed estetica, esaltando maggiormente il talento ( la cui vera forma di innalzamento ai fini del bene della squadra è appunto la concezione opposta all’idea di lasciarlo tristemente fine a se stesso), allontanerebbe dall’acquisizione della vittoria per concetto preliminare? Agghiacciante.
Vedete, il vero punto non è rappresentato da quisquilie quali, ad esempio, l’estremizzazione del preventivo e mnemonico sviluppo delle fasi durante un incontro: il punto è la mentalità vincente, che è al di là di minimalismo e speculazione, dell’estrema organizzazione e della supremazia.
Il punto non è solo essere anacronistici, involuti, superati, incapaci di esaltare il talento in virtù di un’espressione limitata e limitante, assenti nelle idee, oppositori della grandezza derivante dal coraggio e dalla bellezza o parolieri contestabili nei post gara ( non è affermazione da grande squadra parlare di “buona prova” dopo una sonante sconfitta o dopo uno scontro diretto decisivo senza mai tirare in porta) : l’essere privi di mentalità vincente è sommessamente decidere di subire ogni incontro indipendentemente dall’avversario, nutrirsi della unica e sola “volontà di vincere”, sbandierarla, senza averne però mentalità e atteggiamento, a testimonianza di un reale DNA vincente assente.
Le grandi squadre hanno assoluto bisogno di sfoderare prestazioni convincenti, identitarie, impregnate di quella storica mentalità vincente che le contraddistingue da sempre: è una filosofia che solo nelle parole e nelle intenzioni sembra appartenere ad alcuni allenatori, il cui minimalismo mascherato da pragmatismo, la cui mentalità speculativa, le cui dichiarazioni successive alla bontà di un pareggio ottenuto subendo la proposta dell’avversario cozzano quando di riflesso rappresentano società che hanno da sempre visto un mancato successo come qualcosa di intollerabile.
La conseguenza, la principale, la più deleteria è che non si capisce che si è condannati, così facendo, a restare inferiori a sé stessi, a non individuare mai realmente le proprie potenzialità, a non intuire mai profondamente le reali capacità di un gruppo.
Inoltre, ad estrema conferma concettuale ed etimologica, il calcio è un gioco: gli interpreti hanno il diritto di divertirsi in campo, di essere felici nell’essere gli attori protagonisti dello sport più bello del mondo.
Essere privi di soluzioni preventive inevitabilmente indispensabili da preparare in virtù di un’oculata visione globale del potenziale andamento di un incontro e, conseguentemente, rischiare di creare situazioni di difficoltà nella gestione e nella padronanza degli eventi ed essere “costretti” a giocare “tecnicamente male” ( falso a certi livelli, con calciatori di caratura internazionale, parlare di partita giocata non bene dal punto di vista tecnico, di “passaggi sbagliati”: il pallone ad un certo punto si è costretti a buttarlo via per assenza di concetti, linee di gioco, trame, giusto sviluppo della manovra, al di là di errori che naturalmente a volte possono essere individualmente commessi), significa solo trascorrere casualmente un paio d’ore sull’erba di un terreno da football.
Le responsabilità di alcuni allenatori travalicano di gran lunga il campo, indipendentemente dai risultati ottenuti ( magari soltanto figli dell’inevitabile superiorità complessiva della propria squadra rispetto a tante altre e comunque verosimilmente inferiori a quelli che potrebbero essere raggiunti) e rappresentano la logica conclusione di un processo di distruzione di mentalità e personalità: quale identità e quale mentalità dovrebbe avere una squadra a cui è stato solo insegnato a non essere dominante, a comportarsi ( nel pieno rispetto)come la peggiore delle provinciali, quale DNA storico dovrebbe conservare chi ha sempre distrutto la grandezza per un becero, incapace, qualunquismo e minimalismo?
Come fanno alcuni fra i più validi professionisti ad accettare di essere costantemente ridimensionati sino a subire un’inevitabile involuzione e a smarrire, conseguentemente, certezze mentali prima ancora che tecniche?
Nella maggior parte dei casi si tratta poi di quegli allenatori che si dichiarano amanti della qualità individuale , tranne poi preferire giocatori mediocri, etichettati come “piú affidabili”, rispetto ad elementi dalla caratura e dallo spessore complessivamente imparagonabili ma colpevoli di sciorinare, a volte, prestazioni non sempre decisive: un concetto paradossale che sembra suggerire, anche in questo caso, come sembri prevalere la paura di perdere piuttosto che la voglia di imporsi.
Incredibile far passare il concetto, indossando alcune maglie, che il modo più idoneo per tentare di vincere non è rivestirsi di grandezza, carattere, sancire la propria forza attraverso una mentalità unica per antonomasia nel panorama mondiale, bensì sottomettersi e subire, quasi che non facendolo e cercando di padroneggiare la partita inevitabilmente si finisca col perderla o comunque non vincerla.
Come si può credere sia possibile trionfare nell’incontro più importante del panorama europeo se perennemente disabituati a fare la partita nei novanta minuti con la più debole delle provinciali, in casa, in campionato?
Alcuni di voi potrebbero obiettare che il merito è, indubbiamente, in ogni caso, arrivare a disputare l’atto conclusivo della più importante manifestazione continentale.
E’ necessario però rendersi protagonisti di un’attenta e lucida valutazione analitica per poter intravedere ciò che nella storia in alcuni casi è accaduto. Pur compiendo l’intero percorso, diventa difficile spuntarla, prevalere se totalmente inadatti a farlo in una gara secca, allorquando si è chiamati, per forza di cose, ad esprimere una propria identità nella proposta ( differentemente, l’unica logica diverrebbe affidarsi alla circostanza di non essere sopraffatti prolungando l’evento magari sino ai calci di rigore).
Quando tutto deve risolversi in novanta minuti, i limiti derivanti dalla totale assenza di idee da proporre determinano l’incapacità di avere una proposta definita: senza la giusta mentalità ed il giusto atteggiamento, inesorabilmente, si diviene artefici di un inconscio, inspiegabile , ridimensionamento del proprio universo.
No, non nascondo e non ho intenzione di nascondere il mio totale disaccordo, complessivo, e, ribadisco, per fattori che travalicano l’esclusiva materia calcistica “da campo”, nei confronti di chi ( fortunatamente in numero sempre inferiore) sposa questo tipo di inclinazione filosofica.
L’errore più grande è accostare questo modo di pensare a società storicamente per mentalità agli antipodi, dove le vittorie si festeggiano addirittura con relativa esaltazione, per l’enormità dello status, ed i pareggi sono declassati a sconfitte, quasi equivalessero a totale inadempimento del proprio dovere.
Viene svilita, concettualmente, non solo l’espressione calcistica di quei club che hanno il dovere di essere dominanti, ma soprattutto la loro essenza.
Inoltre, così facendo, la tendenza è abituare così male sé stessi e gli altri da rendere legittimo supporre e lasciar supporre che l’unico modo per esprimersi sia innanzitutto pensare di non pensare e limitare conseguentemente il potenziale della propria squadra, quasi si instillasse l’idea incontrovertibile che quel gruppo di giocatori sia costretto a praticare quel tipo di calcio, poiché incapace di fare altro ( follia): con la conseguenza che fare ciò che dovrebbe corrispondere a normalità assume i contorni dello straordinario, di un risultato sportivo raggiunto e che rappresenta il limite massimo cui poter ambire, poiché diabolicamente capaci di abbassare il livello dell’aspettativa.
Da cui la principale responsabilità, presentata come pragmatica o addirittura doverosa, di rinunciare a fare calcio pur avendo rose dalla qualità elevatissima, accantonata a favore di un difensivismo illogico, svilendo gente differentemente esaltata in altri contesti da allenatori diversi.
In sostanza, il punto non è quanto siano potenzialmente inadatti, sotto gli aspetti analizzati, allenatori che coltivano e sono fautori di tali modalità di pensiero : è semplicemente certo che non possano corrispondere all’identikit ideale per vincere competizioni che impongano la necessità di importi, di dominare l’avversario, quanto meno di proporre un’idea di calcio.
Che poi basterebbe capire che puntare a fare sempre il minimo disabitua la squadra ad essere consapevole delle proprie possibilità: oltre a perdere tempistiche fondamentali nella qualità del gioco, nello sviluppo della manovra, nella circolazione di palla, questo perenne atteggiamento minimalista non rende la squadra consapevole dei propri apici, i calciatori hanno bisogno di constatare la sensazione di essere competitivi, di avere la serenità di poter pensare di poter segnare in ogni momento, di non ritenere chiusa una qualificazione realizzando come insormontabile l’idea di siglare due reti nell’ultima mezz’ora all’occorrenza.
Non si può d’incanto scendere in campo in Europa e mostrare qualità mai allenate, tempi di gioco sconosciuti: a certi livelli non si sbaglia partita tecnicamente per incapacità dei singoli ma perché si forza la giocata non sapendo cosa fare col pallone.
Perché costringersi ad un calcio senza gioia che la modernità evidenzia anche non essere foriero di risultati all’altezza?
Perché condannare le proprie squadre ad essere inferiori a sé stesse?
Al di sotto delle aspettative, dei propri valori, dello spettacolo moderno del calcio globale: alcuni allenatori sono lo specchio di una nobiltà decadente che rifugge coraggio e bellezza, che specula e non decide, che subisce e che non domina.
Protagonisti di un calcio che non c’è più o più semplicemente non c’è.
Sciocco voler sminuire i problemi, deridere un approccio alla disciplina più dettagliato, come affidarsi alla tecnologia per soffermarsi sulle dinamiche concettuali di un incontro: il calcio degli ultimi anni, e soprattutto di coloro che hanno vinto, ha dimostrato di lasciar poco spazio al qualunquismo e di essere ben più complesso di quanto alcuni lascino intendere.
La proposta di gioco deve necessariamente essere al passo con i tempi, bisogna coniugare idee, schemi e massimizzazione delle qualità tecniche.
3 risposte
Una “Diatriba” non da poco . Ma allo stesso tempo , e l’interpretazione del gioco , visto da due Filosofie diverse . I “Giochisti” spesso passano per chi vuole fare “circo”, ma in realtà vogliono arrivare a ciò che i “Risultatisti” vogliono arrivare in maniera opposta . I Giochisti , cercano la vittoria attraverso una espressione di spettacolo in campo,seguendo la propria filosofia, idee di come interpretare quella partita per arrivare al risultato finale . Quindi per loro conta il “come” ci arriviamo a vincere . Non è un caso che la storia si ricordi della grande Honved e della macchina chiamata Arancia Meccanica , e dimenticano magari le “vittorie” tanto a cuore dei “Risultatisti” , venute in una certa Maniera (tipo le 3 Champions consecutive di Zidane ) . I Risultatisti magari possiamo dividerli in due categorie , la prima , coloro i quali privi di idee su affidano alla loro rosa per ottenere il risultato . I secondi, quelli finiti su panchine scottanti tipo da salvezza , che cercano il Risultato indipendentemente da come viene , per raggiungere il proprio obbiettivo stagionale . Vuoi perché non aiutati dalla qualità della rosa . Ma ci sono anche i Risultatisti/Giochisti , che sono coloro i quali , pur non essendo in chissà che grandi club , attraverso il gioco è le idee , riescono ad ottenere entrambe le cose . Ma tutti e due , se non sono capaci di farsi accettare , non otterranno ne il Gioco, ne il Risultato.
MI RICORDO IL MILAN DI MISTER SACCHI CON UNA FAME CHE TUTTI SE MAGNAVANO L ERBA DEL CAMPO….PRESSING PRESSING PRESSING …ANCORA ANCHE QUANDO QUEL MILAN STAVA VINCENDO SI ATTACCAVA L AVVERSARIO ALL INFINITO
Quando ero ragazzo sognavo la donna bella, bionda, lavoratrice, ricca e appasionata del fidanzato/marito.
Di tutti questi desideri solo alcuni sono stati rispettati. Quindi, per quante strategie e logiche di gioco puoi adottare, poi la realtà è almeno un po’ diversa dal desiderato.
Ora l’articolo, forse è una mia impressione, ma è dicotomico evidenziando gli errori ed il mancato sfruttamento del potenziale da parte dei “risultaristi” ed il contrario come bello ed efficiente il “giochismo”.
Io per natura sono possibilista, intermedio tra la riva bianca e la riva nera e pragmatista.
Avere idee di gioco non significa necessariamente far girare la palla come in un balletto, per poi affondare, se ne sei capace.
La tattica militare insegna che la sorpresa e la velocità sono gli strumenti principi per battere chi è più forte di te. Qualcuno che mi conosce già lo sa, io cito spesso che Rizzo, con i mas, e De La Penne, con i maiali, hanno affondato corazzate austriache e inglesi. In campo aperto, sarebbe bastata una mitragliata dalle corazzate per far fuori Rizzo e De La Penne.
Ecco, io non sono contrario a quanto tu dici e scrivi, ma ad alcuni estremismi contenuti nel tuo articolo; apprezzo moltissimo quanto tu scrivi, perchè oltre che ben spiegato suscita dibattito, cosa che fa crescere rispetto al pensiero unico.
lo credo che una squadra debba misurarsi rispetto a quella avversaria e debba puntare a indebolire o annullare i punti di forza avversari e sfruttare i propri.
Quindi, io metto insieme entrambe le logiche, anche nella stessa partita. Come ho detto altre volte, non mi piace il difensivismo alla “fort apache” o “Alamo”, credo molto di più ad una linea difensiva sulla tre quarti, che tiene ancora lontano dalla porta la squadra avversaria, ma lascia spazi per micidiali contropiedi. Ma credo anche che se ho i giocatori giusti posso tranquillamente giocare alla “giochista” (Brasile 1982 e Olanda 1974), ma con i giocatori giusti posso neutralizzare e battere i “giochisti” (Italia 1982 e Germania 1974).
Forse ho inteso male e la chiudo qui, anche se basi la tattica su difesa e contropiede ci vogliono movimenti, occupazione degli spazi e mentalità adeguata, su quest’ultima credo non si possa essere che d’accordo.
quindi, al di là di alcuni estremismi non dissento dalla logica di base del tuo articolo.
Un saluto.