LA DICOTOMIA DEL CALCIO ITALIANO, TRA SUCCESSO E QUALITÀ ESPRESSA. 3^ E ULTIMA PARTE.

…Anche Pioli potrei mettere in questo ristretto club di allenatori fedeli alla regola 10 del gioco del calcio, se non fosse che da gennaio in poi quest’anno l’ho visto cambiare atteggiamento ed essere spesso attendista e più calcolatore.

Appartengono poi a questo ristretto club Gasperini, anche se non sono un fan di quella idea di calcio uomo su uomo, Italiano, che sta facendo cose incredibili con la Fiorentina e che ammiro fin dai tempi del Trapani e infine Massimiliano Alvini, tecnico lungimirante che spero possa avere un’altra opportunità in serie A.

Una manciata di allenatori che hanno deciso di seguire il fiume. Direi molto pochi a dimostrazione che, come ci diceva saggiamente Arrigo da Fusignano, l’Italia è un paese assolutamente restio al cambiamento.

Un paese dove, grazie al talento di un tempo, si è vinto molto, ma si è rimasti pochissimo nella storia, nella memoria, nei cuori e nelle anime. Ci sarà un perchè.

Veniamo alle cinque semifinaliste italiane: Milan e Inter nella Coppa più importante, Juventus e Roma in quella intermedia e Fiorentina nella sorella minore.

Quante di queste cinque entusiasmano per la qualità e la proposta del loro gioco?

A me, oggi, verrebbe da rispondere solo la Fiorentina. Il Milan dello scorso anno mi piaceva, mi entusiasmava, mi rapiva l’anima. Il Milan degli ultimi mesi no, lo trovo, diciamo così italianizzato.

Come l’Inter di Inzaghi. Arrivato all’Inter ed analizzando le partite vedevo idee nuove rispetto all’allenatore visto ed analizzato alla Lazio. Un gioco propositivo, totale. Un periodo, lo scorso gennaio, con qualche sconfitta e subito un cambio di rotta. Qualcosa di simile al Milan di quest’anno che, andato per la prima volta in difficoltà, ha quasi rinnegato se stesso per uscire dalle sabbie mobili. Il Diavolo che ha venduto l’anima al Diavolo mi verrebbe da dire.

Roma e Juventus esprimono un gioco all’altezza delle loro rose? Per me assolutamente no. La Juventus poi credo che abbia una rosa dalla qualità assoluta che meriterebbe di vedere esprimere a pieno questo potenziale. E che con quella qualità non dovrebbe né essere in Europa League, né, tantomeno, a venti punti dal Napoli capolista in serie A.

A favore della Juventus dobbiamo dire che è la sola ad aver aderito alle squadre B e con buoni risultati. Altri club si erano dichiarati favorevoli al progetto ma lo hanno poi abbandonato.

Juventus che adesso ha in rosa dei profili giovani, di qualità indiscussa ed indiscutibile. Il solo, enorme, rimpianto è vederla spess giocare un calcio speculativo.

In questo intricato groviglio di argomentazioni per spiegare ed analizzare la dicotomia del calcio italiano mi sto davvero appassionando nello scrivere. Più mi addentro nelle analisi e più mi rendo conto di come siano argomenti che uniti compongono il tutto, in una straordinaria e armoniosa complessità.

La dicotomia del calcio italiano è anche la Nazionale. Capace di vincere un Europeo con un allenatore che, come detto in precedenza, si è evoluto moltissimo.

Il Mancini della Nazionale non è minimamente né lontano parente del Mancini della Lazio, dell’Inter e del City. Squadre dove ha si vinto, moltissimo, ma a livello di pathos e di bellezza del gioco non ha entusiasmato come in Nazionale.

Lì ha compiuto una vera evoluzione e, cosa ancora più importante, una vera rivoluzione.

Ha giocato un calcio meraviglioso, di dominio, propositivo. Ha entusiasmato i giocatori, ha rapito la loro anima e questi, a loro volta, hanno rapito l’anima del popolo italiano.

Trentasette risultati utili consecutivi, novantatrè goal fatti e tredici subiti. Qualcosa di incredibile, dipingendo calcio.

Qualcosa che alle nostre latitudini non si era mai visto.

Tutto questo è stato fatto nel momento in cui, come visto e analizzato, la qualità dei giocatori italiani era tutto fuorchè eccelsa, eccezion fatta per Chiellini, Bonucci e Verratti. Uno straordinario Jorginho è stato naturalizzato, non va dimenticato.

Il resto? Buoni giocatori, molti dei quali non giocavano nemmeno nei principali club italiani.

Buoni giocatori, alcuni anche ottimi, ma di certo non campioni. La parola campione è spesso abusata.

Molti con pochissima esperienza ad alti livelli internazionali.

Ecco che la grandezza delle idee ha fatto si che le difficoltà diventassero opportunità. Venuti meno i Chiellini e i Bonucci i problemi del nostro calcio si sono decisamente ampliati e amplificati.

Mancini vince l’Europeo, molti detrattori – mestiere assai diffuso in questa nazione – diranno con molta fortuna, giocando un calcio moderno, totale, innovativo e lo fa non di certo con la migliore nazionale tra quelle partecipanti alla manifestazione.

Però nel calcio non vince sempre la somma dei valori algebrici. Esiste un misterioso moltiplicatore emozionale ed emotivo, che porta i singoli a rendere di più del loro reale valore e soprattutto a rendere la somma algebrica aumentata di quel molto invisibile agli occhi, ma cosciente nelle anime.

La vittoria dell’Europeo della nazionale italiana la vedo davvero simile alla vittoria dello scudetto del Napoli di Spalletti. A vincere, anzi a stravincere, è stata la squadra che, in assoluto, ha onorato e difeso ad oltranza la “regola 10”.

La squadra su cui nessuno alla vigilia avrebbe scommesso un solo euro, viste le partenze, rumorose e fragorose di alcuni giocatori considerati pilastri insostituibili, veri punti di riferimento.

Invece un mercato saggio e di qualità ha portato nella città del Vesuvio un giovane georgiano semi sconosciuto, che con le sue giocate ha infiammato a più riprese lo Stadio Diego Armando Maradona. Più vedo giocare Kvaratskhelia e più rivedo molto di uno dei più grandi giocatori di ogni tempo, George Best.

Anche in Champions League il Napoli di Spalletti ha fatto cose incredibili e lo ha fatto sempre alla ricerca del risultato in modo coraggioso, a testa alta e petto in fuori, con sguardo spavaldo. 

Ritengo che nelle cinque semifinaliste europee, quelle che stanno nascondendo con un pericoloso artifizio i mali del calcio italiano e i mali del calcio degli italiani, manchi la squadra che ha, nettamente e per distacco, espresso il calcio migliore. Quella che più di tutte avrebbe meritato la gloria per quanto fatto vedere, per le emozioni che ha saputo suscitare. Ecco quindi che, come molte volte accade, il risultato è bugiardo e non è la risultanza di quanto espresso in campo, fermo restando il merito del Milan nel doppio confronto nei quarti di finale champions.

Ho detto a più riprese che per me bisogna poi ulteriormente discernere il calcio italiano e il calcio degli italiani.

Nelle sei italiane ai quarti di finale da cui sono uscite le cinque semifinaliste che “alla Mario da un colpo di spugna al banco del bar” hanno spazzato via per molti i problemi atavici e radicati del calcio del bel paese, quanti italiani giocano? E quanti di quelli che giocano hanno un ruolo da “protagonisti” assoluti?

Andatevi a leggere le formazioni e vedrete, con assoluta desolazione, che i problemi ci sono ed enormi. Tre nel Napoli, due nel Milan, cinque nell’Inter, tre nella Juventus,  quattro nella Fiorentina e quattro nella Roma.

Ma ripeto, tranne Tonali e Barella, Locatelli, Spinazzola e Pellegrini, che sono ottimi giocatori, un paio avviati a diventare campioni, centrali anche nel progetto di Mancini in Nazionale, gli altri sono buoni giocatori.

Sono comunque molto pochi in relazione al complessivo e questo scoperchia, non che ce ne fosse bisogno, il vaso di Pandora, sui problemi del calcio degli italiani.

Andiamo anche a leggere la classifica marcatori del campionato di serie A. Nei primi quindici, non nei primi cinque, troviamo solo quattro italiani. E il primo è al nono posto, Mattia Zaccagni, attaccante esterno della Lazio, che sta vivendo il suo miglior momento, avendo realizzato nove reti.

In una stagione in cui Ciro Immobile sta avendo diversi problemi fisici che ne condizionano presenze e rendimento, si evidenzia in modo netto come manchino totalmente gli attaccanti italiani, di cui, fino ad una quindicina di anni fa abbondavamo.

Pensiamo ad un Igor Protti capocannoniere nel Bari in serie A o a un meraviglioso e devastante “Tatanka” Hubner in Brescia o Piacenza.

Ecco, non solo Inzaghi, Montella, Enrico Chiesa, Vieri e Toni, ma anche nelle “piccole” provinciali c’erano attaccanti italiani capaci di andare in doppia cifra in una serie A ricca di campioni stellari, sia italiani, sia stranieri.

Scrivendo questo articolo mi sembra di descrivere in aula la preistoria, quando parli della improvvisa e misteriosa estinzione delle specie. Attaccanti, fantasisti, difensori, tutti improvvisamente scomparsi. Da averne in abbondanza, da campionissimi assoluti a campioni ad ottimi giocatori, a non averne praticamente più.

Nello stesso Napoli Campione d’Italia, i centrali difensivi, i giocatori di estro e gli attaccanti sono praticamente tutti stranieri. Stessa cosa nel Milan e nella Juventus (Chiesa di fatto, questa stagione, causa problemi post infortunio non ha mai giocato). La stessa Roma tra centrali, giocatori di estro e attaccanti ha in pratica giocatori stranieri, con El Sharawy poco utilizzato.

La Fiorentina idem, dove il solo Saponara trova un po’ di spazio.

Si capisce bene come centrali in questi progetti non siano giocatori italiani. La sola Lazio vede italiani sia nei centrali di difesa, che nei giocatori di estro, sia negli attaccanti, anche se i giocatori di maggiore qualità, oltre ad appunto Zaccagni e Immobile, sono Felipe Anderson, Pedro, Savic e Luis Alberto, ossia stranieri.

Il calcio degli italiani vive il punto più basso della sua storia. Estinzione di interi “ruoli”. Colpa della mancanza di piazzetta o della strada? Non pensate che sia una valutazione che merita un approccio differente, più approfondito?

Io penso che l’assenza nei settori giovanili di una metodologia e l’aver messo, ad ogni età, il risultato al primo posto siano due tra le principali cause di questo impoverimento e di questa desertificazione di giocatori.

Poi di certo, nel vedere intere primavere di giocatori stranieri, mi sorgono spontanee domande di altra natura.

Sono temi che andrebbero approfonditi con esperti di finanza e contabilità e quindi non mi addentro in un campo che esula dal contesto di questo articolo, ma spesso un silenzio può valere più di mille parole.

In questo fluttuare ondivago nella dicotomia tra risultati che mascherano la realtà, calcio degli italiani e calcio italiano, stiamo analizzando molti aspetti, guardando la questione dalle diverse angolazioni, cercando di essere concreti.

La drammatica situazione in cui versa il calcio di casa nostra, che ha costretto il commissario tecnico Roberto Mancini a scavare il fondo del barile cercando attaccanti (ma la questione potrebbe essere estesa serenamente ad altri reparti) che abbiano nonni, bisnonni e trisavoli italiani, ha fatto correre al riparo, si fa per dire, la federazione italiana giuoco calcio, cambiando al volo la regola per il campionato primavera 1 della prossima stagione.

Argomento già trattato in questo blog:

https://www.filippogalli.com/wp-admin/post.php?post=3543&action=edit#:~:text=com/2023/04/-,27,-/la%2Driforma%2Ddel

Questo “al lupo, al lupo” vuole evitare che si debba ricorrere ad un eccesso di giocatori stranieri sin dalla giovane età. Qualcosa che ha del paradossale.

Mi sono spesso chiesto cosa possa pensare un ragazzo che ha fatto tutta la trafila in un settore giovanile, arrivando all’U18 per poi, all’improvviso, veder vanificare tutti i sacrifici degli anni precedenti.

Avviandomi verso l’uscita di questo labirinto scolpito da Dedalo in cui il calcio italiano e il calcio degli italiani deve evitare di finire preda del Minotauro, voglio tornare allo spettacolo.

Qual’è l’elemento che dimostra in modo univoco se un prodotto – eh si il calcio è esattamente questo – funziona o meno?

Il pubblico. Un film si misura con il successo al botteghino, una canzone non più con i dischi venduti come un tempo, ma con i download dalle piattaforme come spotyfi o amazon music, una commedia teatrale con il pubblico in sala. Insomma è il gradimento del pubblico a decretare se il pollice è rivolto verso l’alto o verso il basso.

Anche qui bisogna però notare come ci siano diversi settori. Il pubblico che va allo stadio su cui incide, fortemente, l’aspetto emotivo, la “fede” (questo falsa la realtà della vera qualità del prodotto).

 Il pubblico che si abbona alla pay tv italiane che hanno acquisito i diritti nazionali alla trasmissione in diretta delle partite della serie A e il pubblico estero che guarda, sempre tramite pay tv, il nostro campionato in altri Stati.

Stando ai dati in mio possesso l’afflusso agli stadi si conferma con numeri positivi. La passione del pubblico italiano è assolutamente forte, il legame con la propria squadra di club viscerale.

Abbiamo un esempio concreto, l’U.C. Sampdoria. Una società in grandi difficoltà, ultima in classifica, eppure con quasi 21.000 spettatori di media!

Numeri incredibili anche in trasferta. Questo trascende ogni valutazione reale, ogni statistica, ogni dato. Qui siamo nel trascendente, nella religione più assoluta. Nemmeno Kant riuscirebbe con la sua “critica della ragion pura” a dare una spiegazione a questo fenomeno, che va oltre anche al sangue di San Gennaro.

La Roma sforna sold out in serie, Milan ed Inter si contendono incredibili record di incassi.

Avere però questo riscontro di pubblico, equivale a gradire lo spettacolo? Stando ai social  network, ai blog dei tifosi, ai singoli profili, agli hashtag, assolutamente no.

Lo spettacolo offerto è spesso poco gradito. I risultati anche.

Torniamo ad analizzare la Serie A.  Attualmente il Napoli, che ha distrutto letteralmente il campionato, attende solo l’aritmetica, ma ha ben diciotto punti sulla seconda, la Lazio di Sarri.

Questo vantaggio è così ampio già a cinque giornate dal termine, ma la cosa “grave” che lo è già da diverse settimane. Questo, a mio avviso, palesa l’ assoluta mediocrità del campionato, assolutamente non avvincente. E’, giustamente, entusiasmante per i tifosi partenopei, ma per gli altri? Gli stadi si riempiono quindi per religione, non perchè lo spettacolo sia di livello.

Ulteriore conferma ne è la lotta salvezza. Lo scorso anno bastarono miseri trentuno punti in trentotto partite. Una media punti deprimente.

Quest’anno? Non so se si andrà molto sopra. Negli anni in cui la Serie A aveva davvero campioni in ogni squadra, anche le più piccole, ho visto squadre retrocedere dopo aver fatto oltre quaranta punti.

Nell’anno domini 2004/05 l’Atalanta arrivò ultima con trentacinque punti.  Il Brescia retrocesse con quarantuno punti, addirittura il Bologna con quarantadue.

Post calciopoli (dopo il servizio di Report del 24 aprile potremmo, anzi dovremmo, parlare per ore) non accadrà più una simile competizione in alto e in basso.

Parlavamo però, di parametro per valutare il prodotto, di usare le paytv come cartina di tornasole.

Qui i dati sono allarmanti. Oggi Dazn e Sky raccolgono circa 4,1 milioni di abbonati, con un costante calo ogni anno. Di certo influisce il costo degli abbonamenti, la congiuntura economica e il palinsesto eccessivamente frazionato, però, se pensiamo alla religiosità mistica e fondamentalista vista nei botteghini, vuol dire che il gradimento è in costante e vertiginoso calo.

Voci dicono addirittura che Sky potrebbe chiudere i battenti avendo, a questo punto, i costi superato i ricavi.

Essere abbonati non vuol dire però guardare realmente lo spettacolo. Un interessante articolo di Giovanni Armanini (http://fubolitix.substack.com/) ci rivela che nelle ultime 12 giornate di campionato la Serie A ha avuto un’emorragia di spettatori che è facile individuare tra 1,8 e 2 milioni di persone a giornata.

Quasi il 26% del totale. La Serie A 2021/22 si è chiusa con l’audience tv più bassa degli ultimi anni. Secondo quanto riportato da ItaliaOggi, in base alle rilevazioni Auditel, le uniche valide secondo Agcom,169,6 milioni di telespettatori complessivi hanno seguito gli incontri del massimo campionato italiano, rispetto ai quasi 242 milioni della stagione 2020/21, ovvero il 29,9% in meno.

Dati allarmanti, numeri che confermano come il prodotto Serie A sia, nella evidenza delle cose, sempre meno apprezzato e che, evidentemente, le cinque semifinaliste europee siano più frutto di congiunture astrali, sorteggi favorevoli e tabelloni positivi che, di effettivo, reale, tangibile ed inopinabile prodotto eccelso ed eccellente.

Andiamo adesso oltre confine. Il pubblico che, tranne i nostri connazionali che vivono fuori per lavoro o per scelta, sceglie un prodotto solo ed esclusivamente in base alla qualità dello stesso.

Come facciamo noi nel guardare la Premier League. Lo facciamo perchè ogni partita ci incolla al televisore, non per la fede e la passione che ci muove una determinata squadra, tranne rarissimi casi in cui può essere nata una fede.

Io stesso sono stato folgorato sulla via di Damasco, ma più che da una specifica squadra da alcuni specifici allenatori, tra cui Roberto De Zerbi.

Nel gennaio 2023 l’Advisor Deloitte, uno dei più prestigiosi al mondo, ha stilato il rapporto Money League 2023. I club di Premier League ricevano una cifra superiore ai 3 miliardi di euro per i diritti televisivi, mentre la Serie A, attualmente, non arriva nemmeno al miliardo. Direi che si capisce bene, senza essere Pitagora, che la differenza tra oltre 3 e nemmeno 1 il 70% in meno.

Basterebbe questo a certificare un prodotto, la Serie A appunto, con poco appeal.

Juventus, Inter e Milan hanno incassato nel 2022 per i diritti tv, rispettivamente, 175, 177 e 146 milioni di euro. Cifre nettamente inferiori alla media dei 20 top club – 203 milioni – e spaventosamente vicina a una squadra della medio-bassa Premier League come il Leeds (137 milioni di euro).

In particolare il dato allarmante è quanto fruttano i diritti televisivi della Serie A all’estero; 670 milioni di euro. Una cifra decisamente non soddisfacente, che palesa come l’attuale prodotto non scaldi i cuori oltre le alpi.

Ci sarebbe da chiedersi il perchè o i molti perchè.

Sono, a mio giudizio, ben più di uno, ma il principale è quello che si ignora e certamente il più semplice.

Ossia l’aver distorto quella famosa regola 10 del gioco del calcio.

Immagino i padri fondatori, chi con in mano una pinta di Guinness, chi con in mano un buon whisky torbato, chi con in mano un Bourbon, pensare a squadre che buttino il cuore oltre l’ostacolo.

L’esatto contrario della maggior parte delle partite italiane, gare con poco ritmo, continui falli e squadre che dal primo minuto hanno come piano gara il non prendere goal, piuttosto che farlo.

Quel manipolo di visionari e temerari, Sarri, De Zerbi, Spalletti, Italiano, Zeman, Alvini, Mancini, il Pioli dello scorso anno e pochi altri ho sempre l’impressione che si attenda una loro caduta, piuttosto che gioire per una loro trionfale partita di quelle che vorresti durassero molte ore. Quelle di cui si parlerà per ore, rievocando atteggiamenti e giocate coraggiose.

Da formatore, da metodologo, come traduco tutto quello che ho scritto cercando di sviscerare questa dicotomia e volendo, con tutte le mie forze, alzare il tappeto per far vedere, bene, la molta polvere che quelle cinque squadre stavano aiutando il mainstream a nascondere, celebrando la vittoria sul Piave sul calcio straniero, quando a me pare più opportuno invece evocare Cesare sul Rubicone e, dopo aver visto questi dati allarmanti, pronunciare un coscienzioso alea iacta est?

Per chi come me opera principalmente nei settori giovanili, dove direttamente o indirettamente mi occupo appunto di metodologia, tutto inizia e finisce, in modo virtuoso, esaltando la regola 10.

BIO: Alessandro Mazzarello, è nato a Genova il 3 agosto del 1977.
Laureato in giurisprudenza. Di professione, da quattro anni, Docente Scolastico, dopo aver fatto per venti anni consulenza a privati ed imprese in campo finanziario e di strategie commerciali.
La sua vera e assoluta passione è, da sempre, il calcio. Per diciotto anni ha praticato il futsal a buoni livelli, dove ha avuto anche il doppio ruolo di allenatore – giocatore in serie C/1, perdendo la finale per l’accesso in serie B con una piccola realtà e dove ha anche allenato la Rappresentativa Ligure, portandola, unica volta nella storia, alle semifinali nazionali.
Smette di giocare, a trentacinque anni, in possesso della LICENZA UEFA B e LICENZA ALLENATORE CALCIO A 5, ha iniziato ad allenare nei settori giovanili, togliendosi, da subito, enormi soddisfazioni. Alcuni dei ragazzi che ha avuto la fortuna di allenare sono oggi dei professionisti o protagonisti assoluti nel campionato di serie D. Nei suoi anni da allenatore ha avuto modo di iniziare a sperimentare la sua metodologia, un misto tra artigiano nel suo laboratorio e alchimista. La più bella esperienza quella come Responsabile Tecnico, dove ha affinato quello che poi è diventato il suo presente e, ne è certo, sarà il suo futuro, il percorso di formazione e approfondimento metodologico con la AMC FOOTBALL ACADEMY.
AMC FOOTBALL ACADEMY nasce dopo tanto, molto studio che ha parallelamente portato avanti alla sperimentazione sul campo e grazie anche ad importanti collaborazioni e costanti e continui confronti con importanti esperti del settore. Ha deciso di studiare la realtà del gioco e la sua costante e continua evoluzione, partendo sempre dal perchè di un cosa.
Determinante la creazione della P&M COACHING e PM SOCCER LAB di cui è co-founder insieme al collega mister Pasquale Palermo. Insieme hanno organizzato più di trenta incontri di formazione on line, con, adggi, oltre duecentomila visualizzazioni.
Sono sempre più convinto che possedere una LICENZA UEFA, qualunque essa sia, debba essere un punto di partenza e non di arrivo.
Costanti aggiornamenti e approfondimenti sono la sola ed unica via per poter pensare di condividere delle conoscenze con i propri giocatori e con le proprie giocatrici.
Volersi sempre migliorare arricchendo il bagaglio delle conoscenze sia la sola ed unica strada per elevare il livello del proprio lavoro sul campo.

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