Nel 1965 quando Rinus Michels arrivò sulla panchina del Amsterdamsche Football Club AJAX probabilmente aveva già in testa il suo grande progetto e quella sua personalissima idea del calcio che avrebbe rivoluzionato per sempre la concezione del gioco: fine definitiva della specializzazione nei ruoli ma elasticità e duttilità dei suoi giocatori nel ricoprire tutte le posizioni in campo.
Quell’apparente “anarchia tattica” capace di far saltare i rigidi sistemi difensivi dell’epoca, basati quasi esclusivamente su una asfissiante marcatura a uomo.
Ma l’immediato poneva problemi assai più impellenti: l’Ajax era nelle zone basse della classifica e la retrocessione nella serie cadetta olandese era molto di più di una semplice possibilità.
Una volta raggiunto lo scopo (quart’ultimo posto con solo tre punti in più del Sittardia retrocesso) si poteva davvero iniziare a ragionare.
In quell’estate del 1965 il suo Ajax prese forma e al fianco di calciatori di grande qualità ma già affermati come Sjaak Swart, Henk Groot, Co Prins e alla star riconosciuta del team Piet Keizer iniziarono a farsi largo giovanotti che erano qualcosa di più di “promesse”.
Wim Suurbier e Johann Cruyff in quella stagione iniziarono a giocare con regolarità da titolari e a maggio del 1966 il primo grande miracolo si era compiuto: l’Ajax, dopo sei anni di digiuno, tornava sul tetto del calcio olandese.
Sette punti di vantaggio sugli storici rivali del Feyenoord e addirittura tredici sulla squadra terza classificata, il Den Haag.
L’Ajax tornava a disputare la massima competizione europea diventata nel frattempo sempre più prestigiosa.
Nella mentalità di Rinus Michels la frase “fare esperienza” non ha mai avuto molto valore.
Si compete per vincere o almeno per tentare di farlo.
In attesa di forgiare i nuovi fenomeni del vivaio che sarebbero diventati ben presto pietre miliari nell’undici titolare (Ruud Krol e Johan Neeskens su tutti) occorreva risolvere quello che per Michels era il problema principale del team.
Nei suoi anni da calciatore nelle file dei biancorossi uno dei suoi grandi maestri fu l’inglese Jack Reynolds. Fu lui ad insegnare due dei concetti principali sui quali si baserà l’essenza del gioco proposto da Rinus Michels: il calcio offensivo e l’idea che TUTTI gli undici calciatori in campo siano assolutamente a loro agio con il pallone tra i piedi.
E se il giovane e barbuto Barry Hulshoff aveva già nel DNA questa caratteristica lo stesso non si poteva dire di Ton Pronk o Frits Soutekouw, ottimi difensori ma di sicuro non particolarmente “raffinati”.
L’illuminazione per Michels arriva l’11 maggio del 1966.
Nel vicino Belgio infatti si gioca la finale della Coppa dei Campioni.
Di fronte al poderoso Real Madrid di Gento, Amancio e Pirri c’è la rivelazione Partizan Belgrado.
E non è tra i bianchi madrileni (al loro sesto titolo in undici anni) che Michels trova la soluzione al suo problema ma bensì tra gli jugoslavi.
Il suo nome è Velibor Vasevic, gioca da difensore centrale ma la sua tecnica, la sua intelligenza tattica, la sua capacità di impostare l’azione e di inserirsi in attacco (sarà suo il gol del Partizan nel due a uno finale per i madrileni) sono esattamente quello che manca al suo Ajax.
Non solo.
Con i suoi quasi 27 anni ha la giusta esperienza per prendere per mano la squadra e dello jugoslavo ammira anche la personalità che in certe situazioni assomiglia molto all’arroganza.
«Era perfetto per noi. Il calcio olandese aveva sempre avuto una bassa autostima. Per Vasovic quello era invece l’ultimo dei suoi problemi» dirà Michels parlando del difensore di origine serba.
Rinus Michels non perde tempo. Il pomeriggio successivo alla finale di Bruxelles si presenta in sede e davanti alla dirigenza racconta entusiasta di quello che ha visto la sera prima.
«Quindi dobbiamo acquistare un giocatore come Vasovic ?» chiedono incuriositi i mandatari del Club.
«No. Non avete capito. Non “uno come Vasovic” … io voglio proprio lui!».
La trattativa è tutt’altro che semplice.
Vasovic in Jugoslavia è un mito assoluto. Pochi anni prima per il suo cartellino tra Partizan e Stella Rossa era nata una “querelle” di un livello tale da arrivare perfino sul tavolo del Maresciallo Tito.
L’Ajax non è in grado di fare un’offerta come nelle aspettative di Vasovic ma è anche vero che è l’unica squadra europea che fa davvero sul serio per lui.
A convincere definitivamente Vasovic sarà proprio la “visione” di Michels e la sua idea di calcio.
«Dovevo essere l’allenatore in campo. Quello che dettava i tempi di gioco, che decideva quando “alzare” la nostra linea difensiva, quando difendere con aggressività o quando attendere l’avversario. Per me era perfetto … anche perché era quello che facevo da sempre al Partizan» affermerà con la sua consueta tracotanza Vasovic.
Quando Vasovic arriva all’Ajax, nel tardo autunno del 1966, i “Godenzonen” (figli degli Dei) sono in corsa su tutti i fronti. In campionato è già un testa-testa con il Feyenoord mentre in Coppa dei Campioni, eliminati i turchi del Besiktas, li attendono i favoriti inglesi del Liverpool di Bill Shankly.
In meno di un mese Vasovic vedrà i suoi nuovi compagni annichilire prima i rivali del Feyenoord in campionato (cinque a zero con doppiette di Swart e Cruyff) e poi, il 7 dicembre di quel 1966, imporsi all’attenzione del mondo calcistico con un perentorio cinque a uno inflitto ai “Reds” nella “notte della nebbia” di Amsterdam.
In quella stagione arriverà la doppietta campionato più Coppa d’Olanda anche se l’eliminazione dei quarti dal non trascendentale Dukla Praga lascerà un po’ di amaro in bocca a Michels e ai suoi.
L’Ajax continua a crescere. In campionato arriva un altro trionfo ma in Coppa dei Campioni, stagione 1967-1968, il tragitto sarà brevissimo.
L’urna infatti mette di fronte al primo turno capitan Vasovic (primo capitano non olandese nella storia del Club) e i suoi al Real Madrid che, seppure in fase di transizione, rimane comunque una signora squadra. All’andata all’Olympisch Stadion finisce uno a uno (Cruyff e Pirri i marcatori) e nel ritorno al Santiago Bernabeu solo un gol nei supplementari di Veloso permetterà ai Blancos di passare il turno.
Un nuovo titolo però (il terzo consecutivo) permetterà di ritentare l’avventura in Coppa dei Campioni. Ora l’Ajax è finalmente sufficientemente maturo e pronto per primeggiare anche in Europa. La corsa dei ragazzi di Michels è entusiasmante e non priva di pathos.
Norimberga, Fenerbahaçe, il Benfica di Eusebio (dopo uno spareggio) e il sorprendente Spartak Trnava cadono sotto i colpi di Cruyff, Keizer e Swart.
L’Ajax in finale affronterà il Milan di Gianni Rivera e Pierino Prati.
Nulla quella sera va come ci si attende. I biancorossi sembrano la pallida controfigura dello squadrone visto nei turni precedenti. Nereo Rocco azzecca la tattica alla perfezione. Contenimento per poi ripartire con una formazione assai più offensiva di quella che gli viene riconosciuto. Prati, Sormani e Hamrin con Rivera alle loro spalle trovano varchi con facilità nella retroguardia olandese.
E’ la serata di gloria di Pierino Prati, che firmerà una splendida tripletta.
Sarà ancora Vasovic, come tre anni prima con il Partizan, a firmare il gol della bandiera dell’Ajax, stavolta su calcio di rigore.
Vasovic è il leader della squadra, riconosciuto anche da due grandi giocatori dall’ego smisurato come Cruyff e Keizer.
Ormai i meccanismi sono oliati alla perfezione.
Il titolo conquistato al termine della stagione 1969-1970 (quella in cui il Feyenoord di Kindvall e Van Hanegem trionferà in Coppa dei Campioni, prima squadra olandese a riuscire nell’impresa) darà diritto ad un nuovo tentativo di arrivare a quel titolo di campione d’Europa che per Vasovic sta diventando una specie di Sacro Graal.
Dopo aver eliminato il KF Tirana e il Basilea nei primi due turni per l’Ajax arrivano due ostacoli proibitivi: prima gli scozzesi del Celtic (finalisti l’anno prima contro il Feyenoord) e poi gli spagnoli dell’Atletico Madrid, liquidati con un secco tre a zero nella gara di ritorno ad Amsterdam dopo lo zero a uno dell’andata.
Sono considerati questi i due avversari più ostici e quando gli uomini di Michels si trovano in finale i greci del Panathinaikos (allenati dal grande Ferenc Puskas) sono in molti a ritenere che nella notte di Wembley sarà poco più di una passeggiata.
Il gol di Van Dijk dopo cinque minuti conferma le attese della vigilia ma in realtà la strenua difesa dei greci e la predisposizione al gioco di rimessa di Eleutherakis e compagni creano non pochi grattacapi agli olandesi.
Solo una rete di Haan (entrato ad inizio della ripresa) in seguito ad una sublime invenzione di Cruyff ad una manciata di minuti dal termine permettono a capitan Vasovic di poter sollevare al cielo, dopo due finali perse, la preziosa coppa dalle “grandi orecchie”.
E’ il suggello ad una carriera ai vertici.
“Vasco”, così veniva soprannominato il difensore jugoslavo, ha coronato il suo sogno.
I problemi di asma con cui ha dovuto convivere per tutta la carriera sono sempre più assillanti e non gli permettono più di giocare e di allenarsi come vorrebbe.
A soli trentadue anni, poche settimane dopo quella vittoriosa finale, annuncerà il suo ritiro.
Dopo una lunga ma non esaltante carriera di allenatore che lo ha visto sedersi sulle panchine del “suo” Partizan, dell’Angers e del PSG in Francia, dello Zamalek in Egitto e di Stella Rossa (dove vincerà un titolo nel 1988) e Bellinzona in Svizzera, Vasovic, con una laurea in legge in tasca, lavorerà come avvocato impegnandosi anche in politica con “la Sinistra Jugoslava”, partito politico guidato da Mira Markovic, moglie dell’ex-Presidente jugoslavo Slobodan Milosevic.
Vasovic morirà nel marzo del 2002, a soli 62 anni per un attacco di cuore.
ANEDDOTI E CURIOSITA’
L’infanzia di Velibor Vasovic non è certo idilliaca. Nato alla vigilia del secondo conflitto mondiale, ultimo di nove fratelli, “Vasco” vede il padre deportato in Germania quando ha solo due anni.
Con i fratelli maggiori impegnati come partigiani nella guerra di resistenza c’è per fortuna lo zio materno David Lausevic, un importante membro della Polizia segreta jugoslava, ad occuparsi di Velibor e dei fratelli più piccoli.
Quando tutta la famiglia si trasferisce a Belgrado Vasovic, decisamente portato per gli studi, viene iscritto al “First Belgrade Gymnasium”, storico istituto della capitale jugoslava dove “Vasco”, oltre a confermare la sua predisposizione per i libri, ne scopre un’altra: quella di saper giocare decisamente bene a pallone.
Mentre gioca nelle giovanili del piccolo FK Novi viene adocchiato da uno dei più grandi talent-scout della storia del calcio jugoslavo: Florijan Matekalo, responsabile del settore giovanile del Partizan. Più o meno contemporaneamente a Vasovic arriveranno al club calciatori del valore di Fahrudin Jusufi, i due gemelli Zvezdan e Srdan Çebinac e Vladica Kovačević, che andranno a formare l’ossatura di quel Partizan capace di vincere quattro titoli in cinque stagioni e di raggiungere la finale della Coppa dei Campioni nel 1966.
In una bellissima intervista rilasciata poco prima della sua morte Vasovic racconta dei suoi inizi all’Ajax.
«Appena arrivato mi portarono in tribuna ad assistere ad una partita di campionato. I miei nuovi compagni giocavano contro il PSV Ehindoven. La mia attenzione fu subito catturata da un ragazzino magro magro e chiaro di carnagione che giocava all’ala sinistra. Corse per novanta minuti avanti e indietro per quella fascia e ti dava l’idea che finita la partita avrebbe potuto giocarne subito un’altra. E correva con criterio ! Creando spazi per sé stesso e per i compagni. Tutti i pericoli venivano dalla sua zona di campo. Aveva il “campo di calcio” nella testa. Un Pitagora in pantaloncini corti ! E sapeva sempre come fare per ricevere il pallone nella posizione migliore. Segnò anche un fantastico gol nella nostra vittoria per tre a uno. Finita la partita, tramite la mia interprete, dissi al Presidente dell’Ajax che non avevo mai visto un’ala sinistra di quella qualità. Lui mi rispose che non dovevo preoccuparmi troppo di lui. “E’ solo un ragazzino arrivato da poco in prima squadra. L’ala sinistra titolare, Piet Keizer, oggi non giocava ma è lui il nostro giocatore più forte in assoluto”.
Beh, gli risposi io «se avete un calciatore più forte di questo io posso pure tornarmene in Jugoslavia!»
Quel ragazzino che giocava quel giorno all’ala sinistra era, inutile dirlo, Johann Cruyff.
«Alla fine di quella stessa partita mi accompagnarono negli spogliatoi a conoscere i miei futuri compagni. Cruyff mi accolse con la stessa faccia indifferente che gli avevo visto in campo per tutti i novanta minuti. La mia interprete gli spiegò chi ero e dove avevo giocato fino a poche settimane prima. Era ancora vestito da calciatore. Mi invitò a seguirlo. Con noi vennero anche l’interprete, il Presidente e un paio di dirigenti Tornammo in campo. C’era ancora un raccattapalle con un sacco pieno di palloni. Cruyff glieli fece tirare fuori e sistemare sul limite dell’area di rigore.
Erano nove in tutto.
Calciò i primi cinque e colpì la traversa con tutti e cinque i tiri.
Mi invitò a calciare gli altri quattro.
Feci altrettanto.
Tutti e quattro i miei tiri andarono a sbattere contro la traversa.
Cruyff accennò un mezzo sorriso mentre tutti gli altri applaudivano compiaciuti.
… io però avevo delle normali scarpe da passeggio …»
Velibor “Vasco” Vasovic non ha mai nascosto la sua ammirazione per Johann Cruyff.
«Era avanti a tutti noi di un chilometro. In campo e fuori. Aveva un’opinione su tutto e non aveva certo timore di esprimerla. Poteva diventare quasi insopportabile quando voleva ottenere qualcosa ma non si dava pace fino a quando non raggiungeva il suo scopo. Che fossero benefici economici per la squadra o movimenti da fare in campo durante il gioco.
Piet Keizer lo definì il “nostro John Lennon” … e si misero tutti a ridere quando io chiesi chi fosse questo John Lennon!!! »
Infine il tributo a Vasovic di uno dei più grandi difensori della storia del calcio, Ruud Krol che, in quell’Ajax, faceva il terzino per diventare poi uno dei “liberi” più forti e completi della storia del calcio.
«Vasovic era il mio modello assoluto. Seguivo ogni suo movimento e cercavo di carpirgli i segreti del suo gioco. Sapeva essere sempre al posto giusto nel momento giusto. Era duro e spietato quando la palla l’avevano gli avversari ed elegante e con grande tecnica quando il pallone lo aveva tra i piedi. Averlo avuto come compagno di squadra all’inizio della mia carriera fu per me determinante»
BIO: Remo Gandolfi e’ nato e vive a Parma. Ha gia’ 7 libri all’attivo tra i quali il fortunato “Matti, miti e meteore del futbol sudamericano”. Ha una rubrica fissa sul popolare Calciomercato.com (“Maledetti calciatori”) e con gli amici di sempre gestisce un blog www.ilnostrocalcio.it . Quanto all’amato pallone, e’ profondamente convinto che la “bellezza” e “il percorso” contino infinitamente di piu’ del risultato finale.