MARCO VAN BASTEN: IL CENTRAVANTI CHE DIPINGEVA CALCIO.

Alcuni intellettuali, letterati in particolare, individuano nell’Atene di Pericle, nella Roma di Augusto e nel Rinascimento fiorentino (o più generalmente italiano) i tre momenti più aulici della storia dell’umanità, ragionevolmente limitando, sostanzialmente, alla cultura occidentale, la predilezione di un’individuazione fervidamente accomunata dallo sviluppo apicale, geniale, incomparabile, temporalmente incredibilmente concentrato , delle arti e della produzione umanistica globalmente intesa, altresì in epoche storiche concettualmente determinanti diacronicamente , decisive per l’evoluzione del pensiero e delle strutture sociali, per stile, eventi, personaggi sommi per virtù, doti intellettuali e autorità.

Gli anni dell’età “periclea” furono quelli del massimo splendore culturale di Atene, capitale della filosofia, del teatro, dell’architettura, della poesia, della scultura.

Augusto, fondatore “de facto” dell’Impero che ha dominato su tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, estendendosi, a nord, fino alla Germania e alla Britannia, rimodellò architettonicamente Roma facendole raggiungere uno splendore elevatissimo e, al fin di rielaborarne il mito delle origini e prefigurare una nuova età dell’oro, si avvalse del prestigiosissimo circolo dei letterati dell’epoca, su tutti Virgilio, Orazio e Ovidio.

Il Rinascimento rievocò l’età classica facendo scaturire una nuova percezione del mondo volta alla centralità decisionale dell’individuo, sulla scia dei concetti dell’Umanesimo: Brunelleschi, Donatello e Masaccio i fondatori artistici agli albori di una rivoluzione che, protraendosi per oltre un secolo, partorirà Leonardo, Michelangelo e Raffaello.

Masaccio, che sancì l’avvento del Rinascimento nel campo della pittura ( “le cose fatte inanzi a lui si possono chiamar dipinte, e le sue vive, veraci e naturali” disse Vasari ), riuscì nell’impresa di sciorinare  eccellenza pur abbandonando l’umana vita non ancora trentenne: diverse eminenze, in ambiti svariati, per motivi fortunatamente non coincidenti all’estrema sorte toccata all’egregio pittore toscano, furono costretti ad interrompere la creazione delle proprie magnificenze prematuramente.

Qualora, sulla scia di quanto precedentemente delineato relativamente alla storia della nostra civiltà, volessimo, nelle vesti di intellettuali calcistici, individuare alcune fra le espressioni massimali caratterizzanti la più che secolare era futbolistica, probabilmente non potremmo non menzionare l’epopea del Milan di Arrigo Sacchi, spartiacque fra ciò che fu e ciò che sarebbe stato.

Sintesi di collettività periclea, democratica condivisione, elitaria per accezione platonica, di bellezza architettonica, età aurea augustea e divina estetica rinascimentale, la creatura forgiata dal tecnico di Fusignano ( attraverso la quale lo stesso concetto di calcio venne sovvertito e rivoluzionato) ebbe, fra millanta apicali eccellenze, il suo Masaccio: Marco Van Basten, il centravanti tecnicamente più elegante, completo e leggiadro che la storia di questo sport abbia mai conosciuto, dipinse (letteralmente) calcio fin quando dovette, suo malgrado, piegarsi all’evidenza di una caviglia priva di cartilagine.

A soli ventotto anni, pur annunciando malinconicamente l’effettivo ritiro solo nell’estate del 1995 su quello stesso prato che lo vide indiscusso protagonista, incorniciandone le gesta, il “cigno di Utrecht”( a testimonianza delle inarrivabili souplesse ed eleganza, nei gesti e nei movimenti, alla stregua di Nureev, ballerino russo che folgorò attraverso l’opera di Cajkovskij ) fu costretto, come suole in maniera vetusta dirsi, ad appendere le scarpette al chiodo.

18 AGOSTO 1995 – MARCO VAN BASTEN SALUTA IL POPOLO ROSSONERO A SAN SIRO

Armonico (quasi, per l’appunto, danzasse), ricercato, fine, geniale, magnetico per lo sguardo altrui, spettacolare nelle movenze e nelle esecuzioni, tecnicamente sublime, perentoriamente acrobatico, letteralmente immaginifico nelle conclusioni ( cosa c’è di equiparabile all’incredibile, strabiliante, maestosa, potente, fisicamente difficilmente giustificabile per traiettoria, sconcertante, esecuzione partorita il 25 giugno del 1988 nella finale dei campionati europei, contro l’allora Unione Sovietica, dal limite destro dell’area di rigore e consegnata all’opposto incrocio dei pali ? ),

Van Basten fu, semplicemente, quanto di meglio il football abbia offerto che non fosse circoscritto ai numeri 10.

Un incantevole fuoriclasse, fiore all’occhiello di una compagine che di per sé faceva dell’estetica, seppur preliminarmente collettiva, il suo marchio di fabbrica: apoteosi di bellezza e trascendenza, esaltarsi significava esaltare tutti, compagni, meccanismi, spalti, telespettatori.

In un’epoca che annoverava alcuni fra i principali interpreti a livello assoluto della storia, Marco è stato capace di distinguersi, per caratteristiche, fattezze, peculiarità, sublime narrazione ed eroica compostezza, sino alla sportivamente tragica conclusione: un epilogo contro il volere degli dei, probabilmente invidiosi di cotanta grazia e magnificenza.

Cantore lirico dei contenuti calcistici, fuoriclasse fra i fuoriclasse ( giova ricordare che a vestire la stessa maglia erano Baresi e Maldini, Gullit e Rijkaard, vincitori e, contemporaneamente, ignobilmente, mancati vincitori del pallone d’oro), immarcabile, dal dribbling dolce, a dir poco raffinato nella gestione della sfera (  financo in un San Siro non propriamente esemplare quanto a manto erboso), imprevedibile, visionario quasi fosse un centrocampista di qualità, impeccabile rigorista ( leggendario ed infinitamente identificativo il saltello preliminare alla battuta), mai scorretto: 314 gol, 14 titoli nazionali fra Ajax e Milan (quattro gli scudetti, seppur uno senza scendere in campo ), tre coppe dei campioni ( stesso discorso, assente nell’annata del trionfo sul Barcellona), tre supercoppe europee, due intercontinentali (straordinaria la prestazione contro l’Olimpia Asuncion) e la Coppa delle Coppe vinta con l’Ajax nel 1987; campione d’Europa con l’Olanda nel 1988, allorquando fu capocannoniere del torneo, miglior giocatore del mondo nel 1992, due volte capocannoniere della Serie A ( nel più fulgido dei momenti calcistici della storia, in un campionato incomparabilmente massima espressione di assolutezza inarrivabile, con una qualità media da far impallidire, e non poco, l’attuale Premier League, senza, or dunque, paragoni di sorta abbracciando la totalità della temporalità) e, dulcis in fundo, tre volte pallone d’oro ( 1988, 1989 e 1992).

Protagonista di istantanee sublimi: la doppietta alla Steaua, il tuffo di testa al Bernabeu nell’andata delle semifinali di Coppa dei Campioni del 1989, prodromo al cinque a zero del Meazza ( con, va da sé, la sua firma), la rete contro il Napoli di Maradona al San Paolo, l’apertura di prima intenzione che consente al connazionale Rijkaard di sancire la vittoria sul Benfica nel 1990, le novembrine quaterne al Napoli e al Goteborg del 1992, con Fabio Capello in panchina ( leggenda narra e storia sembrerebbe confermare che le incomprensioni fra Marco e Arrigo fossero sfociate nell’incompatibilità reciproca, tale da determinare, parrebbe senza grossi dubbi in sede di scelta definitiva, l’allontanamento dell’artefice di una delle squadre più grandi di sempre).

A distanza di un mese dalla sublime prestazione nella massima competizione continentale contro gli svedesi biancazzurri, condita, come suddetto, da quattro marcature ( primo giocatore della storia a firmare un poker sul palcoscenico più prestigioso), fra le quali una spettacolare rovesciata a trafiggere Ravelli nell’angolino basso alla sinistra dell’estremo difensore scandinavo,  ecco la consegna, per la terza volta, del riconoscimento individuale più prestigioso: Van Basten, ricevuto il premio che lo consacrava ulteriormente quale migliore giocatore del Vecchio Continente, nella seconda parte dell’annata sarà, però, costretto a fermarsi per quattro mesi, prima di rientrare nella trasferta di Udine e segnare, la settimana seguente, l’ultimo gol della propria carriera contro l’Ancona e contro quell’Alessandro Nista al cospetto del quale siglò la sua prima marcatura in Serie A.

Un segno del destino, un ( ancora inconsapevole ) cerchio che si chiude: l’ultima, amara, apparizione, nella finale persa contro il Marsiglia in quel di Monaco di Baviera, disputata con la caviglia ancora dolorante. Diverse successive operazioni non riusciranno a far sì che il cigno possa tornare a calcare il terreno di gioco.

Un’elevata competenza, sorretta da un’universale e diacronica conoscenza, opportunamente argomentata ed analiticamente figlia di una qualità di pensiero conglobante e radunante la totalità degli elementi da esaminare, suggerisce, senza ombra di dubbio alcuno, che l’apoteosi calcistica raggiunta, individualmente ( collettivamente il calcio saprà evolversi, rinnovarsi ed innovarsi ), nel corso degli ultimi decenni dello scorso secolo è difficilmente equiparabile.

Probabilmente i giovanissimi ( ancorchè  attenti conoscitori) non possono totalmente rendersi conto di quanto sostenuto ma, eccezion fatta per Messi, Zidane e Ronaldo ( le cui carriere sono in ogni caso da dividere fra gli anni novanta e duemila), Buffon, Pirlo ed Iniesta ( che hanno reinterpretato il concetto di qualità in fase di possesso, costruzione e conduzione), nulla è paragonabile ai fuoriclasse di un tempo (l’eccezionalità di Cristiano è, a mio modo di vedere, particolarmente circoscritta alle peculiarità dell’attualità, il valore assoluto del suo talento è complessivamente inferiore alla genialità calcistica dei più grandi esponenti).

Probabilmente è vero che essere figli del proprio tempo è una necessità, una condizione che paradossalmente si subisce e conseguentemente alla quale bisogna acquisire le istanze fondamentali per poter assurgere ai più alti livelli di competitività, indubbiamente: ma se, va da sé,  il prototipo del centravanti ideale di quest’epoca è riconducibile ad Haaland ( il cui più immediato accostamento, istantaneo nella mia mente, per prorompenza e caratteristiche, è Batistuta, del quale, a mio modo di vedere, è persino superfluo sottolinearne la superiorità), quanto non dovremmo rimpiangere la classe, l’eleganza, il talento, la grazia stilistica, i colpi, le letture tattiche finemente percepite, il dominio dello strumento, di Van Basten?

No, non è la nostalgia a muovere i giudizi. Il calcio è cambiato e se, dal punto di vista qualitativo, bisogna in ogni caso conservare quella tecnica necessaria perché il pallone possa essere addomesticato e controllato alla velocità e all’intensità del calcio odierno, il talento cristallino, puro, squisito, tecnicamente divino, di alcuni fra gli interpreti maestosi dello scorso secolo sembra essere scomparso.

Leao può dominare pur errando alcune giocate elementari o tergiversando due traversoni su tre tentativi, basta correre più velocemente degli altri in fase di possesso e di attacco alla profondità; Haaland può segnare, e tanto, pur possessore di una tecnica poco più che basilare.

Oggi, or dunque, quanto varrebbe Van Basten? Quanto varrebbe la sua qualità, la sua capacità di saper giocare a calcio, di leggere armonicamente le intenzioni ed i movimenti ( di pensiero) dei compagni, quanto varrebbero le sue intuizioni, quanti gol segnerebbe, fisicamente integro, in qualsiasi competizione in cui si cimenterebbe?

Non ce ne vogliano i vari Benzema e Lewandowski o coloro che, garantito aprioristicamente un certo numero di partite alle compagini che abitualmente prendono parte puntualmente alla Champions League ( cosa che ai tempi di Van Basten non era garantita, bisognava vincere, forzatamente, la coppa o il campionato), hanno avuto la possibilità ( attraverso le proprie capacità) di annoverare numeri importanti: la sensazione è di un netto ridimensionamento complessivo della qualità, figlio di errate considerazioni ed evoluzioni che partono dal basso.

Il calcio ha sostanzialmente eliminato la figura che per antonomasia lo rappresentava, il numero 10: senza Maradona, Zico, Baggio, Platini, Cruijff, Rivera, senza altresì Van Basten e con un’evoluzione volta alla creazione di esterni d’attacco quali rappresentanti più illustri e notabili, cosa resta della nobiltà espressiva dei tempi passati?

Cerchiamo, nel limite del possibile, di consentire che altri fuoriclasse simili agli appena narrati possano formarsi, naturalmente a partire dai settori giovanili: libertà d’espressione, felicità, assenza di ristrettezze, o non vedremo più niente che sia lontanamente avvicinabile a Marco Van Basten.

BIO: ANDREA FIORE, con DIEGO DE ROSIS, gestisce la pagina INSTAGRAM @viaggionelcalcio.

3 risposte

  1. Complimenti Andrea Fiore. Un articolo di altissimo livello. Dal punto di vista storico e culturale nella parte in cui ci ricorda tre momenti di svolta del percorso dell’umanità alla ricerca della bellezza e poi in quella dedicata alla descrizione di una delle più grandi “opere d’arte” apparse nel la nostra storia sportiva e calcistica. Condivido una certa nostalgia per giocatori come Van Basten. Qualità come Intelligenza e grazia nei movimenti sono oggi qualcosa di raro. Sostituite da doti di muscoli,velocità, aggressività.
    Van Basten ora sembra ancora di più un danzatore classico sceso nelle feroci arene del calcio. Una cosa mai vista prima, qualcosa che forse non rivedremo più.

  2. Complimenti Andrea per la storytelling sul cigno di Utrecht.
    Sarà un caso, ma la mia prima partita a San Siro fu un 7-5-89, Milan-Toro 2-1, gol di Colombo e Van Basten, citiamo anche Filippo che di testa quella domenica del 1989, di testa colpì il montante (come dicono quelli bravi!!).
    Ma credo di essere stato un privilegiato quel giorno, (entrare x la 1° volta a san Siro) a 7 anni, 5 mesi e 2 giorni nel Tempio, sedermi, rimanere ammaliato di fronte a quel prato verde. Dopo pochi minuti, il Cigno sfila sul manto erboso con il pallone d’oro, il 1° dei tre, questo è stato il regalo di benvenuto che mi fece quel GRANDE MILAN!!!

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