Alessio Rui
Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.
Rock and Football
“Papà, qual’era il ruolo di Johan Cruiff?”
A questa domanda la maggior padre dei genitori calciofili con figli nati dopo il 1970 non è mai stata in grado di rispondere.
E non perché non ne fosse interessata, anzi. Semplicemente perché qualsiasi risposta, anche la meglio argomentata, non sarebbe risultata esaustiva.
La nazionale olandese, che nel 1974 si appresta a suonare il “calcio totale”, rifugge dall’idea che i propri protagonisti rivestano singolarmente un ruolo. Avranno tutti, questo sì, una propria “funzione” nell’interpretare le varie situazioni di campo, alla ricerca della supremazia nei confronti dell’avversario, sfruttando un insieme di principi e conoscenze la cui complessità risulterà compiutamente processata dopo anni di successi delle squadre di club.
Nel linguaggio gergale in uso ai più giovani, si tende ad utilizzare l’espressione “essere avanti” per amplificare un atteggiamento, una predisposizione, un modo di pensare (o di operare) particolarmente moderno e/o innovativo. Il calcio olandese di inizio degli anni 70 “è avanti” rispetto al football praticato negli altri paesi perché rappresenta l’emanazione delle novità che stanno emergendo nel vecchio continente.
All’inizio del decennio è in corso, infatti, un’improvvisa accelerazione del susseguirsi delle forme espressive. Vi è un evidente cambio di ritmo nell’evoluzione dei costumi e delle prerogative della società, dettato, in primis, dalle nuove tendenze musicali che si susseguono ad una velocità repentina, in secundis, dall’ingerenza della TV, che oramai ha soppiantato la radio, ed, in terza battuta, da un nuovo modo di apparire che sfocia in abiti e look molto più colorati e vivaci.
La velocità con cui gli eventi accadono non è altro che il risultato di un modo di pensare più libero e, per l’effetto, molto più etorogeneo.
Prendete ad esempio i mondiali di calcio: la differenza tra l’edizione del 1970 e quella del 1974 è la più ampia mai riscontrata tra due edizioni consecutive.
Se assumiamo un parametro di riferimento a scelta tra il ritmo del gioco, la qualità delle immagini, i colori, l’organizzazione della manifestazione o lo spettacolo extra campo non troveremmo un altro quadriennio che sconti, da un’edizione all’altra, un cambiamento così radicale.
Dalle vecchie figurine dei calciatori, con pettinature quasi militaresche, si passa a ritratti di protagonisti non dissimili dai leader di una rock band o dalle stelle di Hollywood. Dallo sportivo impegnato nelle battaglie sociali, tanto da modificare il suo nome da Cassius Clay a Muhammad Alì, si passa al personaggio che crea tendenza.
Analizzate un immagine di Neskens, di Krol, di Rep o di Haan e ponetela a confronto con Bjorn Borg o James Hunt. Coglierete un’incredibile somiglianza nello stile, dei tratti somatici, nel portamento.
La pubblicità ha assunto un ruolo fondamentale. Gli sportivi sono diventati delle star il che fa si che il mondo femminile inizi ad interessarsi a loro. Anche il sostrato di postulati su cui si erge il football è in procinto di lasciare il posto all’apprendimento di nuove conoscenze.
E cosa c’è di più nuovo di una nazionale nella quale i ruoli non sono contemplati?
Di un calco ove, economicamente parlando, prende vita il concetto di “giocatore azienda”’?
Quale immagine può risultare più innovativa se non quella di un colore, l’arancione, sino ad allora mai visto sulle casacche di una compagine di alto profilo?
In questo contesto, l’Olanda si scopre, quasi naturalmente, dominante sul prato verde.
E’ “avanti” rispetto agli altri.
Ma quali sono le prerogative del “calcio totale”?
Secondo un mito di Platone, tra noi e la verità vi è uno spazio occupato dalla nostra percezione. Uno spazio che, talvolta, ci distoglie dalla verità autentica per la propensione a percepire le cose in maniera più affine al nostro interesse o ai nostri auspici. Il risultato è ciò che la tradizione filosofica declina alla voce “post verità”. Concetto che, con un ampio margine di approssimazione, possiamo definire luogo comune.
Nel caso del calcio olandese le “post verità” da sfatare sono più di una.
Spesso si è rubricato il calcio dei Paesi Bassi alla voce “bello e perdente”.
Non vi è nulla di più inveritiero in una simile affermazione.
Nel 1974 l’Olanda si presenta al mondo con 4 Coppe dei Campioni vinte dai suoi club, a cui successivamente andranno addizionate le vittorie ottenute nel 1986 e nel 1995. Si aggiunga inoltre come la nazionale di questo paese, che sino a metà degli anni 80 contava meno di 15 milioni di abitanti, abbia giocato tre finali della Coppa del Mondo, soccombendo per due volte contro la nazionale padrona di casa ed, in duplice occasione, al termine di drammatici supplementari. A smentire la qualifica di perdente, ci avrebbero in ogni caso pensato i tecnici olandesi facenti incetta di titoli dagli anni 70 ad oggi, alla guida di compagini divenute immortali.
E se, a differenza di chi scrive, siete interessati ai riconoscimenti individuali, annotatevi la circostanza secondo cui il Pallone d’Oro è stato assegnato in ben 7 occasioni a calciatori olandesi, a fronte delle 5 vittorie inglesi, le 5 francesi e le 4 italiane.
Apposto questo doveroso punto esclamativo, atto a riabilitare la tendenza al successo dei tulipani, vi è un altro luogo comune da rivedere, ovvero l’inflazionata teoria secondo cui l’Olanda risultasse una squadra esclusivamente dedita alla bellezza.
La realtà è bene diversa considerato come la meravigliosa espressione calcistica posta in essere in occasione del mondiale del 1974 non rappresentasse l’obiettivo finale quanto, piuttosto, il tramite per arrivare all’utilità, ovvero alla vittoria. Se si fosse accontentato di sviluppare sul rettangolo di gioco un trattato di accademia calcistica, il CT Michels non avrebbe insistito così tanto sulla preparazione atletica.
L’Olanda del 74 pratica quel calcio perché ne vuole trarre i frutti. Perché è convinta che grazie al complesso dei principi applicati possa nutrire maggiori chances di primeggiare.
Se volete individuare una nazionale da sempre vittima della bellezza puntate il vostro sguardo un po’ più a sud, all’altezza dell’ex Jugoslavia. Lì si è finiti per sacrificare l’utilità sull’altare della bellezza: Lì ci si è imbattuti nell’eccessiva voglia di specchiarsi. Lì si è preteso trasformare il calcio in un gioco per artisti…
Non nell’Olanda degli anni 70.
Il popolo olandese è notoriamente un popolo pragmatico. Se conoscete almeno uno di loro vi basterà osservare il suo outfit, i suo modo di presentarsi, il suo incedere per comprendere come la ricerca dell’estetica non occupi il primo posto tra i suoi pensieri.
Il calcio che giocavano, innovativo per quel tempo, era il mezzo per cercare la vittoria ed era bellissimo per le conoscenze che ponevano sul campo, finalizzate ad un unico concetto: la ricerca della supremazia.
Di sicuro, pur seguendo i principi di quel calcio, i successivi decenni ci hanno proposto versioni dell’Olanda non sempre dominanti ma, se ti ritrovi ad uscire dall’Europeo o dal Mondiale per 5 volte ai rigori e per 2 volte ai supplementari, viene spontaneo pensare che il fato non abbia interesse a stringere amicizia con te.
Vi è poi una verità di campo da ristabilire.
Per anni si è scritto che la nazionale dei Paesi Bassi, per la bellezza del gioco mostrato, avrebbe meritato di vincere il mondiale.
Il ragionamento fila sino all’epilogo conclusivo. In finale, tuttavia, la vittoria dei tedeschi risulterà meritata, al termine di una gara in cui gli olandesi arriveranno al triplice fischio senza quasi accorgersene, vittime di vedute diverse sul modo in cui la Germania doveva essere sconfitta. Ricostruzioni a metà tra il vero e il letterario parleranno per anni di due blocchi distinti. Il primo si sarebbe accontentato di vincere praticando il calcio totale e dimostrandosi superiore. Il secondo, guidato dal carisma di William Van Hanegem che aveva visto i suoi familiari più cari assassinati dai nazisti, non si sarebbe accontento di una “normale” vittoria sul campo. Una volta in vantaggio, avrebbe voluto umiliare i tedeschi, palleggiare loro in faccia, dileggiarli ed irriderli. Scelta poco ragionevole se il tuo avversario si chiama Germania Ovest.
Ma il luogo comune più arduo da soffocare, tra quelli ancorati nelle convinzioni degli appassionati, è di natura storica.
L’immaginario collettivo tende a identificare l’Olanda del 74 nell’esibizione postuma del favoloso Ajax, vincitore di tre edizioni consecutive della Coppa dei Campioni dal 1971 al 1973, ideato dal demiurgo Rinus Michels.
Scorgendo gli interpreti della fase offensiva e contando le presenze dei lancieri nella formazione base, l’affermazione parrebbe reggere
Sino ad un certo punto però.
Vi sono due elementi di discontinuità tra l’Ajax di Michels e l’Olanda di Michels.
Il primo è dovuto al fatto che quest’ultimo, che ha creato e pensato la meravigliosa squadra delle tre coppe dei campioni, l’ha portata al trionfo solo nella prima delle tre edizioni vinte. Ha prima pensato il calcio che avrebbe voluto predisporre sul campo per poi renderne noti i principi che, una volta processati ed applicati con l’innesto di una discreta componente di atletismo, avrebbero dato vita alla più bella macchina da calcio mai vista. All’indomani del primo trionfo continentale, tuttavia, ha lasciato la guida della squadra.
Al suo posto viene chiamato Stefan Kovacs, tecnico di origini rumene che comprende immediatamente come il gruppo, dopo sei ani di “dittatura Michels”, necessiti di qualcosa di diverso. Farà propri i concetti del predecessore ma darà alla squadra uno stile differente.
L’abito che Michels aveva ritagliato per i suoi si basava sulla relazione tra l’occupazione dello spazio e la tempistica delle giocate, dando vita ad una corrispondenza biunivoca resa possibile in ogni zona del campo dalla duttilità degli interpreti. L’innovazione era stata evidente, lasciando di stucco gli spettatori e, soprattutto, gli avversari. Il nuovo allenatore aggiunge un’attenzione allo stile e al gesto tecnico che potremmo definire morbosa. Nell’Ajax di Kovacs i calciatori, pur dominando lo spazio e scandendo il tempo secondo ritmi sconosciuti agli altri, non sembrano mai in affanno. Quest’aspetto caratterizzerà anche l’Olanda del 74. Alcune situazioni di possesso palla in partita sembreranno autentiche esercitazioni. Alcuni cambi di ritmo appariranno del tutto naturali.
Michels, come poc’anzi accennato, aveva cominciato la propria avventura alla guida dei lancieri nel 1965. Ci vollero anni per far si che gli ingranaggi del complesso tecnico-tattico andassero tutti al loro posto. Già sul finire degli anni 60 la squadra illustrava un calcio mai visto prima.
Difettava, tuttavia, in qualche dettaglio.
Nel 1969, anno in cui approda alla finale di Coppa Campioni, pare proprio che il destino stia per compiersi. Purtroppo per i lancieri l’avversario della finale è il Milan, da affrontare in una di quelle sere in cui negoziare con Gianni Rivera risulta impossibile. Le pennellate del genio rossonero mandano in goal a ripetizione Prati e Sormani. Al termine della gara il tragitto che i ragazzi dell’Ajax percorrono per rientrare negli spogliatoi assomiglia a quello di uno studente universitario che, bocciato ad un esame, è consapevole che da lì a poco lo ripeterà superandolo con la lode. (parte 2)
2 risposte
“Purtroppo per i lancieri l’avversario della finale è il Milan, da affrontare in una di quelle sere in cui negoziare con Gianni Rivera risulta impossibile.”
… una frase che per un milanista sessantenne vale tutto l’articolo.
Complimenti all’autore e a Filippo Galli
Ciao Ivan, grazie!:-)