Alessio Rui
Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.
Rock and Football – parte 2
Ed in effetti l’appuntamento è rimandato di una sola stagione perché nel 1970 la Coppa dei campioni sbarca finalmente in Olanda.
In Olanda ma, incredibile a dirsi, non ad Amsterdam.
“In Olanda
i soldi vengono guadagnati a Rotterdam,
divisi a Den Haag
e sperperati ad Amsterdam”
(Julies Deldeer)
All’estremità occidentale del paese, nei pressi dell’Estuario del Reno sorge la città portuale più importante del continente europeo, da sempre aperta alle commistioni internazionali. Una città che per la sua posizione geografica e per l’attitudine ad accogliere e spedire (non fa differenza se persone o merci) è conosciuta come “La Porta d’Europa”.
E’ da questa porta che appare a Rotterdam Ernst Happel, tecnico di grandissima cultura calcistica in grado di vincere in quattro nazioni differenti e primo allenatore nella storia a trionfare in Coppa dei Campioni con due squadre diverse.
Se Michels ha fondato la propria idea di calcio su principi definiti, Happel trascorrerà tutta la sua vita alla ricerca di nuove soluzioni, di nuove intuizioni, di nuovi approcci alla materia. Non è un filosofo del calcio, non è identificabile con un solo stile di gioco. E’ un enciclopedia vivente del pallone che tende a plasmare le squadre a seconda dei calciatori che si ritrova. Ciò che vale oggi, non è detto valga domani. Il suo calcio è in continuo divenire. Si accorge subito che il tasso tecnico dei componenti della sua rosa non è pari a quello dei lancieri. Decide pertanto di portare la sfida su altri binari e nel 1969 ci riesce tant’è che il suo Feyenoord trionfa in campionato e nell’anno successivo vince la Coppa dei Campioni.
La ricerca della supremazia aveva portato l’Ajax a guardare sempre in avanti, patendo il contropiede del Milan e la fisicità delle squadre britanniche.
Happel vede il football da un’altra prospettiva; comprende l’importanza della fase di non possesso. Il senso edonistico proprio di Amsterdam non attecchisce ad ovest della Randstad.
Al Feyenoord si deve l’estremizzazione di due concetti molto cari al proprio allenatore.
Da austriaco qual’è è convinto che la disciplina sia parte essenziale delle possibilità di riuscita di un gruppo e che la parte atletica possa colmare, se non sopravanzare, il gap tecnico con gli avversari.
E così, aggiunti questi ingredienti ad un gruppo di calciatori comunque di buon livello, propone una squadra rigorosa, atletica e solida e ne consegna le chiavi ad un genio che con il suo talento la porterà in cima al mondo creando nuove dimensioni spazio temporali.
Nel frattempo, anche l’Ajax è cresciuto dal punto di vista atletico, dell’attenzione e del rigore. I tre successi eruopei di fila certificano una superiorità destinata a durare per molto tempo a venire se la squadra non si fosse sciolta.
Ma c’è ancora modo e tempo di mostrare al mondo il calco totale. Michels, infatti, è diventato CT dell’Olanda e, come detto, porterà in nazionale non solo i suoi concetti ma anche gli additivi offerti al calcio olandese da Kovacs ed Happel.
Il risultato è meraviglioso.
Un complesso in cui tutti san fare tutto, in cui lo spazio viene prima creato, restringendo ed allargando il campo a piacimento, e poi occupato grazie ad un dinamismo sino ad allora sconosciuto. Una squadra dai piedi buoni, con un senso geometrico propedeutico alla ricerca di nuove linee di passaggio. Una concentrato di attitudini, tra loro interconnesse, che faranno apparire i calciatori più mobili e più veloci di quello che sono.
Un meccanismo in cui tutti devono sapere giocare in ogni posizione di campo, perché solo in tal modo potranno conoscere i movimenti dei compagni, con una velocità di pensiero atta a ricercare lo spazio e a guadagnare i tempi di gioco.
Questo è il calcio totale. Ma lo è sulla carta.
Per divulgarlo nel campo di gioco è necessario contare su protagonisti di prim’ordine.
Nella concezione di calcio come sport di squadra, non può diffondersi l’idea secondo cui un giocatore risulti insostituibile.
Vi sono, tuttavia, alcuni elementi che tendono a determinare.
Dal complesso arancione emerge un trio anche se, forse, sarebbe più corretto parlare di un quartetto con tre voci da solista ed una quarta che canta in falsetto.
Un trio, dicevamo, i cui componenti possiamo definire Il gobbo, il bello e il visionario.
Il visionario è un anticipatore in tutti i sensi., Ha deciso che giocherà con il numero 14 trent’anni prima dell’avvento delle magliette con numeri fissi. Sarà il primo sindacalista tra i calciatori ed uno dei pochi grandi allenatori con un passato da artista sul campo. Diverrà il primo calciatore di fama mondiale a giocare nel campionato nordamericano nel pieno della carriera, a differenza di altre stelle sbarcate negli USA alla ricerca di una pensione dorata.
Il problema per gli avversari sta nel fatto che è un visionario anche in mezzo al campo. Alla tecnica, sopraffina, aggiunge una capacità aerobica di prim’ordine e una visione di gioco illimitata. E’ fenomenale nel dribbling e quando decide di cambiare passo lascia sul posto gli avversari. Ha il piglio del comandante senza mostrarne il profilo da duro. All’autoritarismo e ai modi dittatoriali preferisce la strafottenza. Che si inventi una giocata da fermo o che parta palla al piede sembra sempre più veloce del diretto avversario. In realtà non è più veloce; semplicemente parte prima. Quando effettua la giocata l’ha già immaginata nella sua testa. Se si lascia andare a preziosismi non lo fa mai per vanità ma perché in quel momento sono utili alla squadra.
L’anomalia non sta nel fatto che un giocatore del genere non si sia mai visto prima ma nel fatto che non si vedrà nemmeno in seguito.
Il bello, che porta lo stesso nome di battesimo del visionario (Johan) indossa con eleganza la 13 e potrebbe risultare indistintamente il protagonista di un servizio patinato, di un film di 007 o di un concerto rock. E’ stato eletto miglior giocatore ai campionati europei juniores di baseball. Sarà per questo che comprende prima degli altri ciò che accade in ogni zona del campo.
Se cercate informazioni su di lui, lo trovate descritto come centrocampista.
In realtà, è molto di più.
Il suo modo di giocare lo inserisce nel processo di formazione del cosidetto “giocatore box to box”. La sua collocazione risiede esattamente a metà del percorso calcistico che va da Alfredo Di Stefano a Zinedine Zidane
E’ l’evangelista perfetto del suo allenatore. In un complesso in cui tutti devono saper far tutto e giocare in ogni posizione del campo, è straripante. Sa essere diga, regista, rifinitore e realizzatore.
Immaginate un calciatore che possa vantare i tempi di inserimento di Tardelli, il dinamismo ad elastico a tutto campo di Toninho Cerezo, la padronanza visiva dell’evento di Falcao e l’attitudine a saltare l’uomo con il primo controllo di Boniek. Aggiungete a tutte queste caratteristiche la capacità realizzativa di Ballack e avrete come risultato la configurazione di Johan Neeskens.
E’ bello, lo abbiamo premesso, ma sa essere anche cattivo ed intimidatorio.
Chiedere, per informazioni, a Giancarlo Antognoni a cui, in occasione del suo debutto in azzurro, regala una scarpata in pieno volto, quasi a zittire una mezz’ora da antologia del capitano viola in quel di Rotterdam. E’ un segnale agli avversari e ai compagni, che, sarà un caso, dopo aver patito per un tempo la giovane Italia di Bernardini ribaltano il risultato e vincono 3-1. Oppure a Dino Zoff che, ai mondiali del 1978, se lo vede saltare addosso ad ogni occasione durante il forcing conclusivo con cui gli olandesi ribaltano il risultato ed approdano alla finalissima.
Per quanto riguarda la personalità vi basti pensare che in una squadra che schiera Crujff, Resenbrinck, Krol e Rep, i rigori li calcia lui.
Poi c’è il terzo che si muove con il mento aderente al petto. Da qui il soprannome di gobbo. E’ polemico, ce l’ha con il mondo e non ha mai superato il trauma infantile di aver visto il padre, due fratelli ed una sorella uccisi dai nazisti.
Non viene dall’Ajax, è stato il perno del Feyenoord di Happel. Non è aggraziato, non è veloce e, a differenza della maggior parte dei registi, non brilla per movimenti eleganti. Ma possiede uno sconfinato genio calcistico, dai più definito “cerebrale”. Non si tratta, nel suo caso, di impostare il gioco a seconda della situazione che gli si prospetta davanti.
Si tratta di “creare” la situazione…
L’Olanda non occupa gli spazi esistenti. L’Olanda occupa gli spazi che William Van Hanegem prima immagina nella sua testa e poi disegna all’interno del terreno verde.
(foto Van Hanegem)
“Gli altri lanciavano nello spazio,
Van Hanegem lo spazio lo creava”
(Mario Corso)
Pur non amando particolarmente Michels, che ha preso la scena al “suo allenatore”, si vede consegnare da quest’ultimo i codici della squadra.
E in questo riconoscimento si compie la fusione tra Michels, Kovacs ed Happel.
Per spiegare questo processo, dobbiamo far entrare in scena la quarta voce, quella che canta non da solista ma definisce i brani rimanendo nell’ombra.
Il genio calcistico di Van Hanegem era destinato ad escludere dal centrocampo la presenza di Arie Haan, regista nonché organizzatore del gioco dei lancieri. Nonostante la stima calcistica che Michels nutriva nei suoi confronti, il confronto con il gobbo sarebbe risultato impari.
Haan, tra l’altro, aveva modificato con il tempo le sue prerogative di gioco.
Arie Haan
Ai tempi di Michels era solito dedicarsi alla fase di interdizione ma, grazie al processo intentato da Kovacs, sarebbe diventato, due anni dopo, un esteta della costruzione.
L’intuizione di Michels è rivoluzionaria. Ricordandosi delle primarie attitudini di Haan, decide di impiegarlo da difensore centrale. Un centrocampista di costruzione al centro di una difesa, schierata in linea, con i centrali disposti a sistema puro.
La costruzione da dietro, nell’accezione in uso odierno, nasce da lì. L’idea per cui tutti devono saper far tutto raggiunge l’apice nel momento in cui ad un difensore viene chiesto di impostare il gioco. Perché nel calcio totale, prima di essere difensori, centrocampisti ed attaccanti, si è calciatori.
Ironia vuole che, quattro anni più tardi, lo stesso Haan, che nella nazionale a guida Michels aveva ceduto la posizione all’uomo di Happel, si ritroverà riportato in mezzo al campo da quest’ultimo.
Ad onor del vero, negli anni 70 non mancano esempi di difensori che partecipano alla manovra, secondo una tradizione inaugurata in modo razionale da Beckenbauer, esasperata dalla veemenza e dall’arte balistica di Passarella e rifinita dall’eleganza di Scirea.
Ma nelle squadre di Beckenbauer, Passarella e Scirea, quando questi si sganciano, rimangano due marcatori a protezione della porta. Nell’Olanda del 74, viceversa, il difensore che costruisce è uno dei due centrali. Non si “sgancia” da una linea che rimane bassa ma la “aggancia” a sé nell’intento di accorciare il campo.
L’esperimento verrà ripreso con successo da Nils Liedholm il quale, pur di non rinunciare ad Agostino Di Bartolomei chiuso da Falcao e Prohaska, lo abbasserà al centro della difesa nella fortunata stagione dello scudetto giallorosso.
Secondo una visione latina del calcio, Haan veniva schierato “fuori ruolo”.
All’interno del calcio totale, quest’espressione non può trovare diritto di cittadinanza perché, non essendo previsto il concetto di ruolo, risulta impossibile individuarne i confini che determinano l’esserne “fuori”.
La storia della nazionale olandese è piena di esempi in tal senso.
Ruud Krol, terzino nel 74 e centrale negli anni successivi è solo il primo della lista. Uno che, quando si è presentò a Napoli, fece strabuzzare gli occhi ai presenti che si chiedevano se quei piedi e quella visione di gioco non andassero sfruttati in una zona del campo più avanzata.
Da Zenden, schierato in posizione di terzino per far spazio ad Overmars, a Seedorf trovatosi a giocare sulla fascia perché “chiuso” da illustri compagni di reparto. Da Cocu, scopertosi giocatore universale in nazionale, a Kuijt, attaccante durante il mondiale 2010 ed esterno a tutta fascia quattro anni più tardi, lungo è l’elenco dei polivalenti in maglia arancione.
L’epilogo del campionato del mondo del 1974 è noto. Tutto si è scritto su quel mondiale, su quelle esibizioni, su quelle meravigliose partite. Ragionare sui motivi che hanno portato l’Olanda alla sconfitta non ha senso. Significherebbe operare un torto all’eredità che quella squadra ha lasciato. Significherebbe contestare il giudizio più importante, più autorevole e più granitico.
Quello assegnatole dal tempo.
Chi ha visto giocare quella squadra è consapevole di dover scontare un debito nei confronti di tutti gli appassionai di calcio: dovrà raccontarne le gesta per rendere omaggio alla sua bellezza.
Per cogliere un successo internazionale, la nazionale dei Paesi Bassi dovrà attendere sino al 1988, anno in cui trionferà al campionato europeo. In quella squadra, la coppia di difensori centrali sarà formata da Frank Rjikaard, centrocampista tra i più forti di sempre, e da Ronald Koeman, difensore con funzione da regista. Con queste premesse, ad allenarla non poteva che essere tornato lui…
2 risposte
Articolo di una bellezza “scandalosa”: “irrita” e lascia di stucco. Rivela passione ed una competenza unica nel suo genere.A mio avviso, sarebbe interessante un’ eventuale comparazione con il Napoli di Maurizio Sarri.A tal proposito, ricordo un’affermazione dell’allora estremo difensore Reina: “Avremmo potuto giocare bendati, non sarebbe cambiato nulla”.
Articolo in cui si nota da subito la passione e la grande competenza nel trattare l’argomento.conoscendo la persona non mi sorprende per nulla.