L’INARRESTABILE LEGGEREZZA DI RYAN GIGGS.

L’arte (perduta?) della finta di corpo.

C’è un ragazzo che corre all’impazzata dopo essersi tolto la maglia della propria squadra, la sventola come fosse una bandiera mentre esibisce un torace che sembra rappresentare il calcio dei pionieri piuttosto che quello di una contemporaneità imbevuta di un edonismo istituzionale.

I compagni esultanti intorno a lui hanno volti tra l’incredulo e l’estatico, lo abbracciano e si abbracciano come avessero assistito a qualcosa d’impossibile.

È il 14 aprile del 1999 e si sta giocando, al Villa Park di Birmingham, la semifinale di FA Cup tra Arsenal e Manchester United, le due squadre che stanno dominando da anni la giovanissima Premier League e che si stanno sfidando in una partita inevitabilmente combattutissima.

Imbattibili contro immortali, una squadra che rappresenta la prima multinazionalità dominante del calcio inglese e l’altra alimentata dalla gioventù di un gruppo di ragazzi cresciuti a pane e appartenenza.

La partita rappresentò perfettamente questo braccio di ferro tra due squadre abituate a non concedere nulla all’avversario e spietate nell’approfittare di qualsiasi suo cedimento.

Il Manchester passò in vantaggio con uno dei piatti più prelibati della casa, un tiro precisissimo di David Beckham scoccato dopo che Teddy Sheringham aveva effettuato un breve passaggio di esterno piede, accomodando il pallone molto fuori il limite dell’area, ma questo per l’ormai Spice Boy non ha mai rappresentato un problema.

L’Arsenal pareggiò con Dennis Bergkamp, uno dei fioretti di quel gruppo con un’anima francese ricoperta da muscoli britannici.

Gli allenatori di queste due squadre sembravano incarnare perfettamente alcuni stereotipi legati alla loro provenienza, l’istintività rubiconda e ruvida come il tartan di Alex Ferguson e l’algido distacco accademico dell’alsaziano Arsene Wenger.

Verso la fine della partita l’equilibrio in campo cominciò a scricchiolare, la fisicità dell’Arsenal sembrava poter prendere il sopravvento e il momento che sancì questo sbilanciamento fu l’espulsione di Roy Keane, ideale ultimo baluardo della fisicità dei Red Devils.

O forse penultimo…

Qualche minuto dopo Phil Neville commise uno dei più classici falli per overdose da acido lattico, puntato da Ray Parlour non riuscì a temporeggiare su un dribbling abbastanza prevedibile ma che dovette affrontare con le gambe ormai piantate nel terreno per la stanchezza, inchiodando il piede dell’avversario e causando un rigore solare (anche per gl’inglesi!)

E fu proprio in quel momento che si prese la scena la figura protesa in volo dell’ultimissimo totem dell’anima United, il portierone danese Peter Schmeichel, che deviò un rigore calciato a mezza altezza dal piede solitamente letale di Dennis Bergkamp.

L’umore della partita cambiò inesorabilmente.

Quella parata avrebbe anche potuto rappresentare l’ennesimo tentativo dell’Arsenal verso la porta del Manchester, ma divenne invece un’inversione di tendenza aggrappata alla sola adrenalina.

La narrativa del calcio spiega momenti come questi attraverso l’ineluttabilità meritocratica della sentenza “occasione sbagliata-goal subito”, che sottolinea perfettamente l’importanza della scarica di ottimismo che solitamente rianima una squadra scampata ad un pericolo ormai inevitabile.

Fu proprio in un momento di questo tipo che sul campo avvenne qualcosa di speciale, il ritmo che ormai sembrava seguire una corrente fu invertito da una mareggiata composta da una sola onda.

Patrick Vieira, cervello e anima dell’Arsenal, si macchiò della profanazione di uno degli assiomi tecnici più importanti del calcio: “mai passare la palla in orizzontale!”

La sfera pentagrammata si ritrovò perciò in un attimo senza padrone finché un ragazzo gallese di nome Ryan Giggs, entrato da poco in campo, non ci si avventò addosso impossessandosene perentoriamente.

Da quel momento in poi quel ragazzo magrolino con i capelli ricci e lunghi cominciò a definire una meta, un punto che avrebbe raggiunto a tutti i costi, non permettendo a nessuno d’intralciarlo.

Il percorso divenne relativo, avrebbe cambiato direzione spostando il pallone ogni volta che sarebbe stato necessario, qualsiasi cosa per rendersi inarrestabile.

Dal momento in cui il sinistro di Giggs adescò la palla anche la sua postura cambiò, agevolato dalle maglie extra large degli anni 90 sembrò aumentare il volume della sua struttura fisica, come se stesse spiegando delle ali utili ad ondeggiare con più forza.

La parte superiore del suo corpo cominciò ad oscillare, a creare dubbi nei suoi avversari usando tutti i suoi elementi, dalle anche alle spalle, probabilmente anche le sue sopracciglia si adeguarono alle finte che stava facendo.

Le sue gambe invece rimasero compatte, propedeutiche alle oscillazioni del busto, nessun doppio passo a raffica, nessun mulinare ad oltranza solo un corpo che s’inclinava nutrendosi delle traiettorie nello spazio in velocità.

Immaginiamo un ideale spettatore che, in quel momento, possa avere gridato “attaccalo!”, illudendosi che il problema fosse una marcatura troppo blanda, ma in realtà ormai il ragazzo gallese aveva preso una posizione di dominio sullo spazio, la sua velocità lanciata lo avrebbe portato ad avere anche un tempo di vantaggio su chiunque gli si fosse posto davanti.

Inizialmente si limitò a controllare la palla, poi accelerò…sempre di più…ancora e ancora…

Il primo ad essere evitato fu proprio Vieira che tentava di rimediare al suo errore, poi fu il turno di Lee Dixon di cui si liberò fingendo di rientrare e, poi, andando sull’esterno, a seguire s’infilò tra lo stesso Dixon che insieme a Martin Keown cercò di stringerlo in una morsa che fu divelta dal ragazzo di vento.

In fine…la conclusione!

Dal 22 giugno del 1986 ogni goal di questa tipologia viene inesorabilmente paragonato al capolavoro di Diego Armando Maradona contro l’Inghilterra, ma ciò avviene solamente per misurare di quanto possa essergli inferiore.

Il goal del Pibe fu l’esaltazione del problem solving, ogni avversario veniva evitato in un modo diverso, c’era una risposta per ogni ostacolo, quel suo portare avanti il pallone a piccoli colpi (dietro cui si affannò il povero Peter Reid) rappresentava perfettamente la repentinità rettile che ingannò ogni avversario, piccoli scatti costanti e inesorabili fino alla fine.

Giggs invece s’innescò a vele spiegate fin da prima che ricevesse il pallone, intimorì gli avversari rimpicciolendoli nello spazio senza che nessuno riuscisse quasi a sfiorarlo, fino a concludere con un vero e proprio acuto finale, un tiro dal basso verso l’alto di una forza sorprendente soprattutto perché scagliato da gambe che avevano percorso tre quarti del campo spingendo all’inverosimile.

Baudelaire nei fiori del male paragonò il disagio dell’artista che deve sottostare alle regole della società borghese ad un albatros che è così maestoso ed imponente finché resta in cielo ma, non appena arriva a terra, risulta goffo e alienato.

Allo stesso modo Ryan Giggs, dopo aver creato quel capolavoro calcistico, esultò mostrando un corpo simile a quello di un fantino del palio di Siena (nel riguardare il video mi sono reso conto che per anni avevo perfino memorizzato quella scena con una canottiera che coprisse quel torace vintage!), riportando il tutto bruscamente ad una normalità che non poteva far altro che essere più brutta della perfezione appena tramontata.

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BIO: Davide Bellini

  • Sono nato a Sanremo nel 1973 e vivo a Ospedaletti con mia moglie Yerlandys e i nostri due figli, Filippo e Santiago.
  • Dopo la maturità classica al Cassini di Sanremo, in mancanza di alternative significative, mi iscrivo alla statale di Milano, facoltà di lingue. Galleggio per un quadriennio (in realtà è stata piuttosto un’apnea!) mentre nel frattempo la mia passione per la musica spazza via tutto e mi porta e mettere su una band di glam rock (idea geniale da avere a metà anni 90 mentre il mondo è incantato dal Grunge!). Il tempo e il talento non dirompente (diciamola così per salvaguardare l’autostima…) mi hanno aiutato a capire che il sogno della rockstar sarebbe rimasto tale. In nome di quel sogno ho passato 8 mesi a Londra e in quel periodo ho recuperato l’amore per la lettura, in particolare per la psicologia e la filosofia. Dai sogni infranti rinasce la voglia di studiare e d’iscrivermi alla facoltà di psicologia a Pavia dove mi laureo con una tesi sulla delfino terapia applicata all’autismo. Inizio a lavorare nelle scuole all’interno degli sportelli di ascolto e in centri di aggregazione giovanile. In seguito, per 5 anni, ricopro il ruolo di vice direttore di una comunità educativa per minori. Col tempo mi specializzo in psicoterapia a orientamento sistemico-relazionale. Riesco a mescolare la mia passione per lo sport con la mia professione conseguendo un master in psicologia dello sport. Dal 2011 mi dedico esclusivamente all’attività privata di libero professionista come psicologo psicoterapeuta.

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