I VALORI DELLO SPORT – L’EDUCAZIONE COMPORTAMENTALE E L’EDUCAZIONE “TECNICA”.

Come già avuto modo di commentare, da qualche settimana lo sport è entrato nella Costituzione grazie all’approvazione del comma settimo dell’art. 33 il cui dettato stabilisce che “La  Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme”.

Ai tre valori indicati (educativo, sociale, di promozione) abbiamo già accennato, in occasione dell’attuazione del nuovo comma, in seno ad un pezzo pubblicato in questo blog cercando di pesare la portata della novità costituzionale.

Entrando nello specifico normativo, corre l’obbligo di evidenziare come la Carta Costituzionale “riconosca” detti valori insiti nello sport, sottendendo come siano presenti e rilevabili nella nostra società.

“Riconoscere” altro non significa se non prendere atto di una situazione di fatto.

In previsione dell’approccio al valore educativo, da inserirsi nell’ambito della pratica sportiva, è necessario suddividere il contesto di riferimento in tre distinti sottoinsiemi: 1. l’educazione da intendersi in ambito verticale; 2. l’educazione in ambito orizzontale; 3. l’educazione “tecnica”.

L’educazione in ambito verticale si riferisce al rapporto che lega i tecnici ed i dirigenti ai  tesserati che hanno in cura. Trattasi, in primo luogo, dell’impegno a diffondere i principi di correttezza, virtù, lealtà e buon comportamento sottesi alla pratica sportiva in modo da educare gli atleti, oltre che aiutarli nel percorso di formazione dal punto di vista umano, emotivo e caratteriale.

Detta prerogativa, assolutamente imprescindibile in seno ai settori giovanili, sconta il luogo comune che la vorrebbe applicata solo in ambiti “de coubertiniani”, siano essi giovanili, dilettantistici, amatoriali o ludici.

La realtà ci dice altro se è vero, come è vero, che il valore educativo è previsto quale requisito essenziale in capo ai tecnici pure in ambito professionistico, ovvero in contesti di interesse nazionale, come stabilito dalla carte federali.

Ne consegue che, per quanto possa apparire singolare, anche gli allenatori della massima serie devono attenersi alla funzione di educatore.

Emblematico, da questo punto di vista, un episodio accaduto il 2 maggio 2012 durante un incontro del campionato di calcio di serie A.

Nell’occasione, a seguito di una sostituzione per scelta tecnica decisa dall’allenatore nel corso del primo tempo, con la squadra di casa sotto di due goal contro l’ultima in classifica, il calciatore sostituito si rivolgeva in modo offensivo verso il proprio tecnico che, ferito negli affetti personali e familiari nonché eroso dalla tensione della gara, perdeva la necessaria lucidità e lo aggrediva fisicamente.

Chi scrisse all’indomani dell’accaduto che l’episodio portò all’esonero del tecnico diffuse  un’informazione errata in quanto il suddetto, anziché esonerato, venne licenziato per giusta causa.  Ciò per essere venuto meno, tra gli altri, ai doveri connessi alla propria funzione di educatore avente riguardo della condotta morale dei calciatori.

Comportamento da ritenersi nell’occasione ancor più deleterio in quanto il club intratteneva una partnership con un’organizzazione benefico-umanitaria al fine di sensibilizzare l’ambiente calcistico verso dinamiche di solidarietà ed attenzione ai problemi dell’infanzia.

Il successivo contenzioso innanzi al tribunale del lavoro premiò le ragioni della società e la sentenza definì il comportamento del tecnico contrario ai principi di natura formativa ed educativa disciplinati dal contratto redatto secondo le indicazioni federali.

Chiarito quest’aspetto, è ovvio come il rapporto tra tecnico-istruttore ed atleta non possa limitarsi ai doveri del primo nei confronti del secondo. In ossequio al principio di corrispondenza biunivoca, anche gli atleti saranno chiamati a comportarsi in maniera educata ed appropriata verso la figura (o le figure) che li accompagnano nel processo di formazione. Al netto del gesto di stizza e del momento di sconforto, i comportamenti non devono mai degenerare.

Pur condividendo l’intento di tali principi, ci è chiaro come non sia sempre automatica la loro ricezione nella pratica quotidiana.

Uno degli aspetti per cui, talvolta, si inceppa il rapporto tra tecnico ed atleta è rappresentato dalla difficoltà di accettare le scelte tecniche.

Nel caso dianzi citato, l’eccessiva e maleducata reazione del calciatore parve dovuta alla sostituzione che lo aveva coinvolto.

Sostituzione che, lo ribadiamo, era stata decisa nel corso del primo tempo, senza che l’atleta scontasse problematiche di natura fisica.

La sostituzione nel corso del primo tempo, se non indotta da infortunio o da inferiorità numerica a seguito di espulsione, viene percepita dai calciatori come una sorta di umiliazione.

Ad avviso di chi scrive, questa percezione, che talvolta condiziona le scelte degli allenatori in corso di gara, merita di essere sfatata.

Se una partita “si mette male”, e il tecnico ritiene che l’assetto della squadra vada modificato per provare a “riprendere” la gara,  avrà più chances di farlo quanto prima interviene.

Possono palesarsi situazioni in cui una sostituzione al 30′ minuto, che consente di intervenire con due terzi di gara da giocare, risulterà più funzionale ad un miglioramento della prestazione collettiva rispetto ad un cambio chiamato a secondo tempo iniziato. Senza che ciò vada inteso come un’umiliazione nei confronti del calciatore sostituito.

Educare gli atleti significa anche aiutarli nella comprensione di alcune dinamiche sottese alla figura del tecnico-istruttore che, se intellettualmente onesto e adeguatamente preparato, non farà mai nulla per ferire di proposito lo stato interiore dei calciatori della propria squadra. Siano essi professionisti di alto livello o partecipanti al campionato amatori.

Quando, viceversa, interverrà volontariamente  con decisioni tecniche di natura “restrittiva”, lo farà con l’intento di correggere comportamenti non idonei, posti in essere dal calciatore e, per l’effetto, in ossequio ad una funzione educativa.

Vi è poi da considerare l’educazione orizzontale, tra atleti di “pari grado”, ovvero tra compagne/i di squadra, (o di club nei casi in cui più compagini si allenino all’interno delle medesime strutture). 

In un mondo in cui, non di rado, i buoni comportamenti vengono scambiati per mancanza di determinazione o carenza di personalità è auspicabile, rectius necessario, modulare la vita di campo e di spogliatoio secondo principi virtuosi.

Il continuo rimbalzare del concetto secondo cui “i ragazzi devono essere lasciati iberi di esprimersi senza limitarne il talento” non può esimersi dal rispetto delle persone e della loro sensibilità, soprattutto all’interno di gruppi estremamente giovani.

Libertà, certo! Purché finalizzata all’espressione creativa; non come viatico verso l’anarchia calcistica e, aggiungiamo pure, comportamentale.

La concezione che associa il talento alla sregolatezza comportamentale va lasciata decantare.

Il talento può essere fonte di creatività, di follia sportiva, di inventiva, di attenzione all’estetica.

Mai deve diventare un lasciapassare per comportamenti maleducati.

Il gestaccio al momento della sostituzione non è solo un’espressione di rigetto verso la scelta del tecnico ma anche una mancanza di rispetto nei confronti del compagno che subentra.

Siamo consapevoli di come sia naturale che un gruppo passi per litigi e momenti di tensione. Così come è nella logica delle cose che qualcuno di tanto in tanto possa trascendere nelle espressioni dialettiche e gestuali.

Non è pensabile che una comunità viva sempre nell’idillio.

Ma l’approccio tra compagni di squadra deve essere mirato alla coesione e all’inclusione.

A tal uopo, diverrà fondamentale la capacità di scusarsi e, soprattutto, di adoperarsi affinché le divergenze non minino oltremodo la serenità del gruppo. 

Capita spesso di leggere ed ascoltare la locuzione  “calciatore di personalità” in occasione di atteggiamenti maleducati o comportamenti ribelli.

Concetto, quello di personalità, inflazionato nelle narrazioni e nelle cronache, che per sua stessa natura non può essere univoco.

Qualsiasi essere umano sviluppa la “propria personalità” in seno alla quale confluiscono le peculiarità, le inclinazioni, i gusti, gli interessi e le modalità comportamentali che lo contraddistinguono.

Non si tratta di un concetto assoluto e statico ma di uno stato situazionale in continuo divenire.

Anche la personalità si può, anzi si deve, formare.

Farlo attraverso un processo educativo non toglierà nulla sotto il profilo del carisma e dell’autorevolezza. 

Anzi.

Porterà una serie di benefici dal punto di vista della lucidità e della sicurezza; questi sì elementi portanti di una spiccata personalità, tali da accrescere la fiducia dei compagni in favore dell’atleta in questione.

Dev’essere spiegato ai ragazzi che la personalità non si acquisisce con comportamenti maleducati o con reazioni plateali.

La personalità racchiude molti aspetti ma non quello della maleducazione.

Come già accennato in un precedente contributo pubblicato in questo blog (“Lo sport entra in Costituzione”)https://www.filippogalli.com/2023/09/30/20-settembre-2023-lo-sport-entra-nella-costituzione/all’educazione comportamentale si dovranno addizionare gli aspetti inerenti all’educazione sportiva in senso stretto, elevando il livello di competenze di chi dirige una società al fine di trattare i vari contesti sottesi ad ogni singola disciplina sportiva non separatamente ma come unicum, in ossequio al principio della complessità dello sport e del calcio. Solo in tal modo sarà possibile formare le menti dei praticanti di pari passo con le conoscenze tecniche e le prestazioni atletiche”.

Per affrontare il terzo contesto di educazione è necessario spostare l’attenzione a quanto accade nei settori giovanili e prendere spunto da un concetto, caro a chi scrive ma ancora di più a Filippo Galli che, grazie ai colleghi Zanoli e Gualtieri ne è stato precursore nonché primo nella divulgazione, secondo cui è necessario coinvolgere i genitori non solo in merito agli aspetti organizzativo-logistici dell’attività dei loro figli ma anche in riferimento alla formazione tecnica.

Da anni non vi è dibattito sul calcio giovanile che non preveda un riferimento in negativo allo smisurato protagonismo dei genitori, ovvero alla tendenza a caricare i figli di eccessive attese, al punto da far apparire i primi un “peso” od un ostacolo per le gesta sportive dei ragazzi.

Tale atteggiamento, in alcune circostanze, può portare ad un conflitto tra gli insegnamenti del tecnico, che si presume preparato e competente, e il genitore che, dal canto suo, trae forza dal rapporto familiare.

Premesso come nessun comportamento atto a invadere la sfera tecnica dell’allenatore sia tollerabile, così come non lo può essere l’eccessiva pressione posta sul ragazzo, è lecito, e per certi versi doveroso, chiedersi cosa le società facciano per prevenire simili situazioni e per permettere ai genitori di comprendere i motivi per cui ai loro figli viene chiesto di seguire una strada piuttosto che un’altra.

Tra i primi a chiederselo, come dianzi anticipato, sono stati coloro che erano alla guida del settore giovanile rossonero con Filippo Galli, una decina di anni or sono. Quel gruppo di lavoro non si è limitato a percepire una sorta di fastidio ogni qualvolta un genitore, nell’assistere alla performance del figlio, ne criticava le gesta o gli consigliava di agire in maniera differente rispetto alle indicazioni tecniche ricevute. Sono andati oltre alla negatività della situazione, provando a comprendere se il genitore di turno si trovasse nella condizione di comprendere i motivi per cui al ragazzo venivano impartite determinate indicazioni.

Da qui l’idea di coinvolgere le famiglie non solo in merito alle comunicazioni riguardanti la sede degli allenamenti, gli orari, i kit di fornitura di abbigliamento tecnico, gli aspetti comportamentali e tutto ciò che concerne all’aspetto organizzativo.

I genitori sono stati coinvolti anche in merito all’aspetto meramente tecnico.

In un contesto in cui la comunicazione sportiva, soprattutto in tema di calcio, tende ad inondare gli appassionati e a creare pletorici dibattiti tra “giochisti” e “risultatisti” ed in cui tutti (più o meno legittimamente) aspirano ad esprimere la propria opinione, spetta alle società il compito di organizzare degli incontri (soprattutto ad inizio stagione) al fine di illustrare ai genitori il tipo di calcio che si vuole promuovere, motivandone le scelte.

Così facendo, questi ultimi, nel momento in cui assisteranno alla giocata del figlio, avranno consapevolezza del motivo per cui, ad esempio, sarà portato a passare la palla al compagno vicino anziché ascoltare il suggerimento da fuori campo: “Buttala sù che stiam perdendo”

Quest’intuizione consente di sviluppare un nuovo contesto di educazione, che ci permettiamo di definire “educazione tecnica”, che altro non rappresenta se non un tentativo di coinvolgere le famiglie spiegando loro, ad esempio, perché si preferisca formare i ragazzi con un calcio di possesso e di principi, perché in occasione dei calci da fermo si prediliga giocare sul corto anziché crossare nel mezzo, perché in determinate occasioni si ritenga preferibile schierare la squadra in un modo piuttosto che in un altro ecc…

Così facendo, il genitore, non solo sarà informato sui concetti calcistici che il ragazzo è chiamato a seguire, ma sarà anche portato a pensare, prima di criticare, alle motivazioni alla base  del gesto tecnico del proprio figlio.

 A quel punto la dialettica con il tecnico non avrà più il sapore di un conflitto ma di un proficuo confronto.  Con sequenziale beneficio per allenatori, genitori, dirigenti, figli e società.

BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.

2 risposte

  1. Alessio non posso che esprimere totale condivisione di quanto da te scritto.

    Interessante l’idea di spiegare, più che coinvolgere, ai genitori quale profilo tecnico si intende seguire e quindi motivare certe scelte tecniche fatte, anche durante le partite.

    Io, per la verità, quei quattro anni che ho allento (1983-87) ho sempre avuto un atteggiamento aperto con i genitori e, soprattutto, invitato la società a lasciar andare via chi si riteneva non adeguatamente impiegato, non mi piaceva e non mi piace fare prigionieri.

    Quindi, lo sviluppo dell’idea di coinvolgere i genitori, non nelle scelte tecniche, ma nello spiegare loro le scelte tecniche la condivido in pieno.

  2. I complimenti in tal senso vanno girati a Filippo ed al
    gruppo di lavoro.
    Personalmente ho solo coniato il termine “educazione tecnica”.
    Spiegare i motivi delle indicazioni tecniche è un passaggio educativo e formativo.
    Grazie
    Alessio

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *