MONDIALI 1998, SEMIFINALE FRANCIA – CROAZIA 2-1: LA DOPPIETTA DI LILIAN THURAM.

LIBERO DI AGIRE PERCHÈ LIBERO DI PENSARE: QUANDO THURAM RISCRISSE LA STORIA DEL MONDIALE DI FRANCIA ’98.

Esistono delle espressioni di uso comune che hanno un potere evocativo inspiegabilmente più forte di altre, quasi possedessero un’aura magnetica, una superficie più vellutata per la parte tattile della nostra sensibilità.

Una di queste espressioni è quella della “coperta corta”, modo di dire che usiamo quando vogliamo descrivere una situazione in cui l’eventuale soluzione di un problema ne potrebbe causare un altro, e viceversa.

Un’altra frase che spesso ascoltiamo, soprattutto in ambito sportivo, è che l’attacco sia la miglior difesa, ma il momento che stiamo per rievocare sembra dirci esattamente il contrario perché, in alcune occasioni, la difesa riesce a diventare il miglior attacco possibile.

Perché citare proprio queste due espressioni, o meglio, citare un’espressione e il ribaltamento di un’altra?

Cos’hanno in comune?

Probabilmente solo il volto eburneo di Lilian Thuram, difensore francese che potrebbe essere definito come una poli eccellenza perché, non solo appariva privo di punti deboli, ma tutte le sue tantissime qualità sembravano manifestarsi sempre a livelli altissimi.

Anche la nazionale francese, che si presentò pronta per vincere un titolo (cosa che, effettivamente, avverrà) davanti ai propri tifosi, potrebbe essere descritta come una poli eccellenza, un muro senza falle.

Probabilmente in questo esatto momento molti di voi staranno storcendo il naso, pronti a ricordarmi che un neo in realtà c’era…la coperta era corta!

Quella fantastica corazzata, sicuramente priva delle bollicine del carrè magique composto da Platini, Giresse, Tigana e Fernandez, era però incredibilmente più solida, sembrava infarcire la sua autostima con la consapevolezza di poter compensare un potenziale realizzativo non eccelso con una difesa praticamente imbattibile.

Ecco la coperta corta, una testa di ponte offensiva che rinunciava spesso al suo ruolo per rinforzare la parte più forte della squadra, quella difensiva, due prime punte come Guivarc’h e Dugarry perfette per quel compito, tanto asfittiche quanto combattive.

Stephàne Guivarc’h avrà il privilegio di poter raccontare per tutta la vita di essere stato il centravanti della fantastica squadra che ha vinto il mondiale casalingo del 1998, magari omettendo il fatto di non aver realizzato nemmeno un goal in quel percorso vittorioso.

Ma l’aspetto centrale dell’espressione “coperta corta” è che, in alcuni casi, soluzione e problema possono essere strettamente connessi, perciò, il destino nefasto del problema può incredibilmente incidere sull’entusiasmo della soluzione.

Quella notte dell’8 luglio del 1998 la partita sembrava essersi fatta irrimediabilmente sedurre dal sadico piacere della sorpresa, ormai piena di indizi che rimandavano direttamente a catastrofi calcistiche come il Maracanazo o alla trappola argentina in cui si spensero le notti magiche.

La nostra frase di senso comune applicata al calcio assume un valore ancor più intricato perché per noi una difesa che si scopre è una difesa che rischia, mentre sul terreno dello Stade de France il reparto difensivo francese, impersonificato da Lilian Thuram, spinse la coperta così fortemente in avanti da sfondare il muro avversario.

A questo punto sarebbe tremendamente ingiusto non fare riferimento agli scacchi bianco rossi di quel muro avversario, appartenente alla prima figlia vincente nel calcio nata dalla Jugoslavia, il primo popolo (insieme a quello sloveno) che gridò fino a far sanguinare le anime di tutti i suoi cittadini per essere riconosciuta come una nazione indipendente, la Croazia.

Quella sua rappresentazione calcistica colse l’esatto momento in cui s’incontrarono una generazione più esperta arrivata all’apice e una più giovane in ascesa, entrambe nate con talento e senso di appartenenza distribuiti in egual misura.

Per ribaltare una squadra come quella fu necessaria la capacità di opporsi, caratteristica tipica dei leader che solo tali emotivamente, cognitivamente e tecnicamente.

Una volta Kareem Abdul Jabbar che, richiamando la sua comparsa nella filmografia di Bruce Lee potremmo definire cintura nera di assertività, in un’intervista disse: “se osserviamo una persona agire comportamenti razzisti non basta girarsi dall’altra parte per esprimere il nostro dissenso, perché quel silenzio davanti a una ferità così grande per tutta l’umanità potrebbe risultare talmente insufficiente da diventare connivente, bisogna manifestare, bisogna opporsi!”

Abbiamo accennato prima come la nazionale francese vincitrice di quel campionato del mondo nel 98 convivesse con l’ingombrante, quanto inevitabile, termine di paragone della bellissima squadra campione d’Europa nell’84.

Se per Zidane sembra scontato il confronto con Platini e per Blanc con Bossis, a Thuram veniva accostato il fortissimo Marius Tresor con cui condivide il luogo di nascita, la Guadalupa, e il ruolo in campo.

Ma c’è qualcosa che rende Thuram diverso da chiunque l’abbia preceduto, capace di spacchettare ogni luogo comune con la forza della serietà, una analitica razionalità e il più profondo equilibrio.

Lilian non avrebbe mai potuto essere riconosciuto con quella fastidiosissima etichetta che gli anglosassoni davano ai giocatori afroamericani, i “colored”, una definizione che sembrava identificare qualcosa di esotico, una curiosa variabile (più spesso un’incognita) che le squadre sembravano concedersi sempre più di sovente, soprattutto per le qualità fisiche di quei giocatori, non riuscendo invece a riconoscere in loro quelle tecniche o tattiche.

Una categorizzazione pericolosamente vicina a quelle brutture dell’anima che Thuram non ha mai accettato.

In quella semifinale con la Croazia però il problema era un altro, convincere quella fantastica truppa a scacchiera che sarebbero stati ricordati anche perdendo perché, in realtà, la Croazia non poteva veramente temere più nessuna sconfitta.

L’uno a zero segnato dalla punta del mancino vellutato di Davor Suker, all’inizio del secondo tempo, avrebbe potuto riempire d’ansia i polmoni di chiunque, non quelli di un giocatore abituato a spingere sempre, tanto da decidere di segnare gli unici due goal, delle sue 142 presenze da record in nazionale, proprio in quel momento.

Entrambe le azioni hanno lo stigma della battaglia perché in tutte e due le volte Thuram attaccò un avversario mentre era in proiezione offensiva (la coperta corta…) costringendolo all’errore.

Nel promo goal rubò palla a Boban indirizzandolo, così, verso Djorkaeff che gliela restituì ripulita e splendente, mentre nel secondo Thuram si superò, conquistando palla più o meno nella stessa posizione del primo goal e tirando col sinistro di prima intenzione sul palo più lontano.

A quel punto interpretò una delle esultanze più iconiche del calcio, una posa da pensatore, le braccia si misero conserte e la mano andò verso la bocca, dando vita ad un’espressione riflessiva, un interrogativo esistenziale molto vicino alla consapevolezza del cogito ergo sum.

In quella sera vorrei vederci una ideale connessione tra l’afa del caldo umido di Pointe-à Pitre e quella dell’appennino modenese perché mi piacerebbe pensare che, quando Vasco Rossi scrisse quel manifesto dell’assertività che chiamò “C’è chi dice no”, pensasse proprio ad una persona verticale come Lilian Thuram.

BIO: Davide Bellini

  • Sono nato a Sanremo nel 1973 e vivo a Ospedaletti con mia moglie Yerlandys e i nostri due figli, Filippo e Santiago.
  • Dopo la maturità classica al Cassini di Sanremo, in mancanza di alternative significative, mi iscrivo alla statale di Milano, facoltà di lingue. Galleggio per un quadriennio (in realtà è stata piuttosto un’apnea!) mentre nel frattempo la mia passione per la musica spazza via tutto e mi porta e mettere su una band di glam rock (idea geniale da avere a metà anni 90 mentre il mondo è incantato dal Grunge!). Il tempo e il talento non dirompente (diciamola così per salvaguardare l’autostima…) mi hanno aiutato a capire che il sogno della rockstar sarebbe rimasto tale. In nome di quel sogno ho passato 8 mesi a Londra e in quel periodo ho recuperato l’amore per la lettura, in particolare per la psicologia e la filosofia. Dai sogni infranti rinasce la voglia di studiare e d’iscrivermi alla facoltà di psicologia a Pavia dove mi laureo con una tesi sulla delfino terapia applicata all’autismo. Inizio a lavorare nelle scuole all’interno degli sportelli di ascolto e in centri di aggregazione giovanile. In seguito, per 5 anni, ricopro il ruolo di vice direttore di una comunità educativa per minori. Col tempo mi specializzo in psicoterapia a orientamento sistemico-relazionale. Riesco a mescolare la mia passione per lo sport con la mia professione conseguendo un master in psicologia dello sport. Dal 2011 mi dedico esclusivamente all’attività privata di libero professionista come psicologo psicoterapeuta.

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