Non esiste vicinanza più stretta nel mondo dello sport di quella che intercorre tra il Brasile e il calcio.
Questa affermazione è di fatto un’ovvietà, che chiunque abbia interessi riguardanti il pallone potrà senza dubbio convalidare.
Ma cosa succede quando la squadra che sempre, ogni volta che si va a competere, viene imputata unanimemente come la più forte e talentuosa, di fatto non vince?
La domanda pare porsi ad ogni piè sospinto, generando spesso mormorii, subbugli e qualche aspra polemica; soprattutto pare venir mal digerita da gente orgogliosa come i brasiliani, i quali sembrano non voler cedere nemmeno all’ineluttabile legge matematica del “non si può vincere sempre”; ma d’altronde questo non voler chinare il capo alla sconfitta è sintomatico di un tifo che ha ancora vivi nella propria i ricordi di tragedie come quella del Maracanazo e che continua a dover pregare, come in un mantra rituale, affinché essi non si ripresentino.
Ecco che per scacciare questi fantasmi occorre una mente di estrema razionalità, un timoniere savio che sappia non badare alle pulsioni e all’istintualità, ma che riesca a traghettare il veliero all’attracco più sicuro, in un paese, per altro, dove gestire le faccende riguardanti il calcio è quasi di pari importanza al ruolo di un politico.
6 anni fa l’incarico di CT della Seleção ricade dunque su Adenor Leonardo Bacchi, detto Tite, subentrato dopo l’eliminazione della Seleção ai gironi della Copa America del 2016.
Figura sconosciuta ai più nel nostro continente, forse oscurata dal solito snobismo europeo verso i campionati del Sudamerica, che invece in patria era riuscita a richiamare l’attenzione anche dei più fini intenditori con una carriera in progressivo crescendo, culminata nel 2012 con la vittoria della Libertadores con il suo Corinthians.
Lo stile professorale, come da soprannome, non tradisce:
Il ritratto è quello di uno studioso anacoreta prima che di un carismatico capopopolo; attento osservatore dell’antropologia del Brasile, uno che il calcio verdeoro lo ha respirato dovunque andato assimilandone le conoscenze, senza lasciarsi fuorviare dall’aspetto emozionale, che in ambienti come quelli sudamericani spesso capovolge i risultati, anteponendo sempre ad essi una mobilitazione totale dei propri concetti e dei propri schemi, senza lasciarsi in balia del fato o della mistica.
La carriera di Tite è segnata da un continuo bisogno di ricerca e cambiamento del proprio stile, un apprendimento costante che non può mancare nemmeno delle pause riflessive e da un gusto quasi esclusivamente contemplativo dell’esperienza calcistica, come dimostrato dall’anno sabbatico preso a seguito dei successi con il Corinthians, dedicato allo studio dei sistemi di gioco moderni usati in Europa:
Un’uscita dall’ordinario quest’ultima, quasi a voler esulare dalle dinamiche consuete in un paese come il Brasile dove il calcio è vissuto nell’arco di tutti i 365 giorni. L’approdo di Tite sulla panchina verdeoro verrà accompagnato dai consueti dubbi, d’altronde, come già affermato, il ruolo di guida tecnica della Seleção si rivela essere sempre quello diplomaticamente più arduo da svolgere, avendo un intero paese che, sopratutto durante competizioni quali i Mondiali, si mobilita interamente per il calcio.
Inoltre il modus operandi del “Professore” secondo alcuni risulterà incompatibile con quello della tradizione brasiliana, abituata, differentemente che ad un lavoro continuo finalizzato ad un espressione armonica e corale, ad un eccessivo laissez faire.
La prima delusione cocente per Tite arriva proprio ai Campionati di Russia 2018 con l’eliminazione ai quarti di finale avvenuta per mano di un outsider come il Belgio, non riuscendo così a riscattare il trofeo precedente, perso nel 2014 alle semifinali del Mondiale di Casa , uscendo con lo spaventoso risultato di 7-1 rifilatogli dalla Germania.
La temperatura si alza a dismisura intorno alla panchina della Seleção conseguentemente alla sconfitta nella spedizione mondiale, ma la scelta della Federcalcio è chiara fin da subito:
Tite riconfermato, con la possibilità di affrontare un ciclo di preparazione intero tra due campionati del mondo, sebbene qualcuno tenti già di sminuire il suo lavoro, additandolo come il solito “bello ma inconcludente”.
La prima grande ed indubbiamente meritata gratificazione arriva per il CT l’anno seguente, nella Copa America 2019, in un’occasione unica per far tornare il Brasile re del proprio continente davanti al pubblico di casa.
La vittoria è costruita partendo da tutti gli elementi del calcio di Tite:
Organico giovane e futuribile, puntellato da qualche veterano come Thiago Silva e Dani Alves(imprescindibili per le dinamiche del gruppo), costruzione dal basso, gioco per lo più a due tocchi in mezzo al campo e nessun punto di riferimento prestabilito lì davanti, potendo così anche rispettare il dogma della Selezione verdeoro, che impone di schierare sempre il maggior numero possibile di giocatori offensivi e di talento, ciascuno di essi bisognoso della propria dose di libertà negli spazi. L’assenza per infortunio di Neymar rafforza un ennesimo concetto nell’idea del tecnico, ovvero l’assenza di predisposizioni gerarchiche nella formazione:
Gioca chi sempre chi fa meglio.
Due anni dopo però, sempre in Copa America e sempre con il favore del pronostico sulle spalle, il Brasile si dovrà arrendere in finale davanti all’Argentina, in una partita tutt’altro che spettacolare, somigliante più ad una battaglia campale tanto da far spesso infuriare gli uomini di Tite, costantemente ostacolati nel loro palleggio da falli reiterati e non propriamente dei più sportivi.
La sensazione a fine partita, contrariamente alle aspettative, è parsa una rassegnazione collettiva da parte dei brasiliani dinanzi ad un gruppo come quello argentino, che, seppur più limitato e inesperto in fatto di vittorie, avrebbe fatto di tutto per portare Leo Messi al suo primo successo con la Celeste.
Ma ritmi serrati del dopo Pandemia non permettono di rimuginare sulle sconfitte e le soste non sono consentite:
La Seleção fa terra bruciata alle sue spalle nel girone di qualificazione, ripresentandosi in Qatar da favorita, come sempre, invero.
In ogni caso Tite non molla la presa e lavora energicamente per affinare al meglio un gruppo che mai come oggi sembra conformarsi all’idea prestabilita.
Sorprendono le convocazioni, e non potrebbe essere altrimenti quando il bacino di talenti a cui attingere è cosi ampio da dover escludere per forza di cosa qualche grande nome dal circolo dei ventisei.
L’occhio di riguardo del tecnico per il calcio di casa propria non tradisce nemmeno questa volta, difatti tra i tanti militanti in Europa, spuntano due giocatori, uno di essi particolarmente sorprendente, dello spettacolare Flamengo vincitore di due Libertadores negli ultimi quattro anni:
Gabigol?
No, bensì Pedro, ex meteora della Fiorentina, ritornato in patria a fare le fortune delle casacche rubonegre, agendo da punta mobile e di raccordo; giocatore con caratteristiche uniche nel roster dei selezionati e a fargli spazio il ben più quotato Firmino. L’altro nome “di casa” è Everton Ribeiro, uomo di esperienza in mezzo al campo, scelto come rincalzo per una mediana già ben consolidata.
Si assesta nella linea di trequarti un giocatore in crescita esponenziale nell’ultimo anno e mezzo, trasferitosi in estate al Barcellona dopo l’apprendistato a Leeds di Bielsa; trattasi di Raphinha, ala destra dal mancino mortifero, fuciliere di cross insidiosi per le linee avversarie, unico giocatore di piede sinistro a disposizione per il fronte offensivo oltre ad Antony, uno degli elementi più positivi di questo inizio a rilento del Man United di Ten Hag.
L’ultimo nome controverso, strano ma vero, è proprio Dani Alves, ormai da qualche mese annoverabile tra gli ex giocatori, ma preso in considerazione per offrirgli la possibilità di vincere il suo primo Mondiale, unico trofeo a mancare nel suo palmares sconfinato.
Il tempo per le discussioni è ridotto a zero:
Dopo soltanto una settimana di preparativi il Brasile salpa verso le sponde del Golfo Persico, con la sensazione di essere arrivato al massimo splendore della propria armonia.
All’esordio della competizione per Tite, dall’altra parte della barricata, si presenta una Serbia che tutto dimostra fuori che arrendevolezza e remissività, complici le ottime risposte fornite nelle fasi preliminari del Torneo, che avevano visto gli uomini del CT Dragan Stojkovic qualificarsi davanti al Portogallo.
Il primo tempo acuisce le sensazioni positive dei Serbi, che riescono a respingere le avanzate di Neymar e compagni, pregustando già un possibile sgarbo da infliggere alla Seleção.
Proprio Neymar, con la “Dez” sulle spalle, sembra recepire in maniera diversa gli stimoli dati dalla casacca verdeoro:
Attento, concentrato, sguardo basso e comportamento stranamente silenzioso, differente dal solito atteggiamento sbarazzino del talento troppo più forte degli altri per applicarsi.
Da serio candidato come recordman sia di presenze che di gol, dovendo superare non meno che Cafù e Pelè, O’Ney ha maturato nel corso degli anni un senso di appartenenza sempre maggiore al gruppo di Tite, del quale è divenuto presto il simbolo.
Un ritiro spirituale quello offerto dalla Nazionale maggiore alla stella ex Santos, che da fedele compagna ha sempre saputo placare i malumori patiti in Europa e alla quale viene costantemente tributato in cambio un rispetto ed una devozione infiniti, non comparabili alle sensazioni talvolta contrastanti provate con indosso le maglie dei club.
Nonostante ciò, l’unico successo di Neymar con il Brasile rimane l’oro Olimpico nel 2016, il che rimanda anche a parecchie sfortune rimediate dal numero 10 quando affiancato dai propri connazionali.
Sarà proprio Neymar Jr. a propiziare il primo gol del Brasile contro i serbi, liberandosi con una finta di corpo da due difensori in maglia rossa e ponendo Vinicius nelle condizioni di calciare verso la porta.
Il tiro dell’ala del Real Madrid, dopo essere stato prodigiosamente respinto da Milinkovic-Savic, viene ribadito in rete dall’uomo fino ad all’ora più in ombra dell’offensiva brasiliana, ovvero Richarlison.
Dopo un’ora di sforzi infatti, la compagine sudamericana iniziava ad accusare qualche fastidio per il risultato ancora fermo sullo 0-0 e proprio Richarlison appariva come l’uomo più in difficoltà:
Non troppo centravanti puro, non troppo mezza punta, il giocatore del Tottenham di Conte era stato ben arginato dall’attenta retroguardia serba che presto gli aveva preso le misure, condannandolo ad una prestazione che sembrava esigere un cambio.
Ma Tite, resistendo alla tentazione di pescare dalla panchina uno dei tanti assi a sua disposizione, attende pazientemente, concedendo al destino un ritardo di ancora qualche minuto.
Ecco come l’approccio pragmatico e razionale del tecnico verdeoro sembra vacillare di fronte alla fiducia ispiratagli dal suo fedelissimo Richarlison, portandolo a compiere una scelta apparentemente controindicata, quella di lasciare seduto Gabriel Jesus, in forma straripante, come dimostrato dall’inizio di stagione nell’Arsenal di Arteta.
Dopo il primo tap-in che sblocca il match, la prestazione di Richarlison e la scelta di Tite vengono pienamente riscattate quando, da un cross d’esterno del solito incontenibile Vinicius, il numero 9, dando le spalle alla porta, ricava un controllo perfetto con il sinistro con il pallone che rimane a mezz’aria; poi girata al volo con il piede forte e palla che si insacca nell’angolo basso.
Doppia firma e gol capolavoro:
Tite, anche da calcolatore pragmatico, sarà dovuto ricorrere ad una qualche arte divinatoria per poter prevedere un esito del genere, oppure semplicemente la connessione con il suo giocatore è risultata fondamentale, memore dei passati meccanismi che lo avevano portato al successo in Copa America, dove a chiudere i conti in finale contro il Perù fu proprio Richarlison.
Di lì in poi sarà show verdeoro, con la Seleção che dilagherà nella metà campo offensiva, facendo piovere conclusioni da tutte le parti in direzione della porta difesa da Milinkovic-Savic.
Tutta la magnificenza del Brasile è riassumibile negli ultimi trenta minuti di gioco:
Scelta sconfinata degli interpreti e delle soluzioni possibili, superiore magistero del gioco, palleggio armonico e corale, movimenti coordinati e all’unisono che garantiscono, oltre che ad una vivacità offensiva senza pari, anche una solidità della linea tutt’altro che scontata, coadiuvata in particolare dalla coppia centrale Marquinhos-Thiago Silva, ormai basilare nell’assetto della Seleção e dalla presenza inamovibile di Casemiro, centro nevralgico di tutta la squadra.
Ma la domanda rimane sempre la stessa:
“E se anche questa volta il Brasile dovesse perdere?”
La risposta banale a tale quesito è che, in buona sostanza, la Coppa sarà vinta da un’altra pretendente che se la sarà meritata di più.
Eppure la sensazione è che questa volta il Brasile voglia mettere sul campo tutto ciò di cui è a disposizione per tagliare finalmente, dopo 20 anni dall’ultima volta, il traguardo iridato.
D’altronde quando il talento puro degli interpreti è unito alla sapienza illuminata della propria guida, ed entrambi incontrano oltretutto anche lo sguardo della provvidenza, allora per gli altri pare esserci veramente poco da fare…