“IL REALISTA VISIONARIO. LE MIE REGOLE PER CAMBIARE LE REGOLE”

di Arrigo Sacchi con Leonardo Patrignani, RCS MediaGroup, 2023

Nel prefinale di un celebre film del ’62, di John Ford, L’uomo che uccise Liberty Valance, un giornalista dello Shinbone Star, parlando con James Stewart, pronuncia una frase che riassume forse il senso ultimo di quella storia dalla fotografia di ghiaccio, invernale, verrebbe da dire, ragionando sul genere: “That’s the West, sir. When the legend becomes fact, print the legend.” (Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda).

Lo sguardo finale – rassegnato? Finalmente o amaramente consapevole? – di Stewart/Stoddard chiude il cerchio oppure lo apre, verso appunto una leggenda che non appartiene più soltanto agli uomini che hanno contribuito a crearla, ma assurge a mitologia collettiva, per tutti, di tutti. Comunque sia andata davvero

Ebbene, qui, nel senso dei luoghi in cui si ambienta la storia raccontata nel libro-mosaico, Il realista visionario, non siamo nel West, ma poco ci manca, per la portata epica – tra stupor mundi e Rubicone – delle imprese degli Immortali (il nome di quel gruppo di meravigliosi giocatori richiama le divinità olimpiche, ché addirittura il pelide Achille aveva il suo tallone: loro no!) e per l’abilità di Arrigo Sacchi di scivolare dal concreto al simbolico e poi tornare sul piano pratico, come si conviene a un uomo di terra, della sua terra. Perché Fusignano, come pure, in modo diverso, Milano Marittima – più sabbia che mare, per come emerge dalle parole di Sacchi – sono i fulcri terragni dai quali ogni racconto trae origine: ogni valore, parola assai cara, è innestato nelle radici, a partire dall’esperienza di lavoro nel calzaturificio di famiglia, fino alle imprese del grande Milan e della nazionale italiana.

Sì, vera e propria impresa, anche in quest’ultimo caso, non soltanto per la sfida che il clima sventurato, con tassi di umidità umanamente insopportabili, impose e per i molteplici infortuni in corsa, quello di Franco Baresi, su tutti. Il buon Arrigo più volte torna su un concetto che gli sta a cuore, e cioè che arrivare secondi non sia mai un sconfitta: esserci, essere lì, ancorati ai propri principi, e dare il meglio di sé, senza adagiarsi sulle scorciatoie che la furbizia suggerisce, non può esserlo.

Allo stesso tempo, una vittoria non è gratificante, se non è ottenuta con merito, ma ricorrendo a sotterfugi. L’assioma è: non si può mai davvero vincere, se non si impara come si perde. Ce lo ha detto anche Pep Guardiola, autore della bella prefazione di questo libro, quando di recente ha partecipato a un evento, a Cuneo, organizzato dalla Fondazione CRC, in collaborazione con la Fondazione Vialli e Mauro per la ricerca e lo sport Onlus e la Fondazione Guardiola. Il manager catalano, uno che ha vinto tutto, in ogni squadra che abbia allenato, uno che ha cambiato, non a parole, ma nei fatti, la concezione di questo sport, parla della sconfitta con saggezza: si vince molto meno di quanto si perda, e questo concetto va insegnato ai ragazzi.

Guardiola, che indica Sacchi tra i suoi massimi ispiratori, insieme a Johan Cruijff, è il Michelangelo del calcio moderno, colui che, come il Divin Artista vedeva la forma già inclusa nel blocco di marmo grezzo, coglie il movimento prima che si compia. Pep intuisce spazi che, prima che il suo occhio li delineasse, non esistevano, o non sembravano esistere.

Eppure proprio lui, che si potrebbe beare dei propri successi, parla di sconfitta e lo fa con disarmante sincerità: la hybris non lo ha corrotto e, da uomo, che avverte la seduzione e insieme il rischio di ogni slancio prometeico, mette in conto il rischio di perdere, di fallire.

Ma si tratta di un reale fallimento? Il concetto riecheggia, si ripropone in varie forme, all’interno di questo volumetto a più voci, e la risposta è sempre, inequivocabilmente: no. Leonardo Patrignani, il co-autore, tesse storie da maestro e porta l’esempio del film School of Rock. Potrei aggiungere il più recente, Chi segna vince, con Michael Fassbender, incentrato sul calcio. E se la massima di Beckett, sul provare, il fallire e il riprovarci ancora, quando la si legge nel contesto di Worstward Ho, non è proprio un’incitazione motivazionale, poco importa, dato che si sta parlando del profeta di Fusignano.

Si perde più di quanto si vinca, ma bisogna saper vincere e perdere bene, con onestà (ce lo ricordiamo Guardiola che bacia la medaglia d’argento dopo la sconfitta, in finale, contro il Chelsea, in Champions League? Be’, dovremmo, perché c’è più calcio in quel semplice, ma non banale, gesto, che nella più ricca delle bacheche).

La dicotomia tra vittoria e sconfitta, che è tale solo nella mente di chi non agisce, è una delle ragioni per le quali Arrigo Sacchi predilige – lo ribadiva anche nel suo flusso di coscienza milanista, La coppa degli immortali. Milan 1989: la leggenda della squadra più forte di tutti i tempi raccontata da chi la inventòil termine strategia rispetto a quello di tattica.

Sembra giusto una sfumatura semantica, tipica di qualcuno che usava la Smemoranda per annotare ogni minuscolo particolare della preparazione e delle partite, ma è molto di più: lì si incardina uno dei principi del sacchismo filosofico.

La strategia, ci dice Sacchi, rappresenta, non l’attesa dell’errore dell’avversario, come è nella tattica, ma la valorizzazione delle proprie capacità. Esagerando un po’, si potrebbe asserire che la tattica funzioni per i leader deboli, quelli che hanno bisogno di puntare sull’estro dei singoli fenomeni.

La strategia invece è per chi possiede una vera attitudine alla guida (non mi piace usare la parola “comando”, perché credo che non sia una faccenda da condottieri).

La strategia mira insomma al funzionamento dell’ensemble, visto come un unicum potenziato e non come la mera somma di solisti di talento, di grande talento, nel caso di quel Milan. In altre parole –  parole gestaltiche – “il tutto è più della somma delle singole parti.” Alla tattica serve l’improvvisazione rapida e geniale, mentre la strategia si nutre, più di ogni altra cosa, di tempo.

Citando – Sacchi non disdegna le iperboli e i paragoni funambolici – L’arte della guerra di Sun Tzu – “Tutti possono vedere le mie tattiche, nessuno può conoscere la mia strategia” – l’allenatore sottolinea dunque il ruolo fondamentale di un collettivo che suoni a tempo (e per farlo servono ripetizioni infinite): il cigno di Utrecht, l’olandese dalle caviglie di cristallo, era importante quanto i cosiddetti gregari, perché una stonatura dei secondi avrebbe impattato anche sul rendimento, sulla melodia, del primo.

Lo stesso Ruud Gullit, uno dei protagonisti del puzzle di ricordi ed esperienze che è Il realista visionario, a un certo punto comprende lo sforzo che gli veniva richiesto, proprio a lui che amava soprattutto l’aspetto ludico dello sport: “quegli automatismi da anni consolidati nelle nostre menti e quella disposizione al sacrificio, all’aiuto reciproco, al culto del collettivo… ecco cosa ci aveva fatto giocare così bene.” (Il realista visionario, p. 89)

Può apparire come un paradosso che uno dei più grandi innovatori del calcio mondiale – avrei voluto dire nostrano, ma sembra che in questo caso i frutti siano stati scaraventati dal vento lontani dall’albero – sia così legato al passato, al suo passato… quasi un tradizionalista. Si tratta però di una prospettiva miope, se si pensa al Milan degli immortali, la “testuggine romana” di Sacchi (ipse dixit!), squadra con evidente vocazione offensiva (e per questo dotata di una difesa di ferro: “defender atacando y atacar para ganar”, diceva Cruijff), e lo si paragona alle idee di calcio dei padri fondatori, a quella piramide di Cambridge che si esplica nel modulo 1-2-3-5. Più offensivi di così!

Passato, presente e futuro, sì, futuro, dialogano senza sosta nella prosa di Arrigo Sacchi e dei suoi interlocutori a distanza (ci sono Carlo Ancelotti, Antonio Conte, l’ex direttore della Gazzetta dello Sport, Carlo Verdelli ecc.). Perché il calcio, in fondo, è una storia che si riscrive a ogni partita, una storia fatta da eroi vogleriani e dai loro mentori, fatta di suoni armonici e di follia, della nebbia di Belgrado – una nebbia che fa vedere meglio a chi sa guardare – e della strenua difesa della cultura, del tempo necessario e di ogni altro valore irrinunciabile.

Come La follia di Corelli, tanto amata da Sacchi, come la massima di Albert Camus che, in barba a qualunque postulato kantiano, sosteneva: “Ce que je sais de la morale, c’est au football que je le dois” (Tutto ciò che so della morale lo devo al calcio).

BIO : Ilaria Mainardi – Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita. 

  • Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema. 
  • Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.
  • Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!

Una risposta

  1. Recensione stupenda, fa venire voglia di acquistare il libro (cosa che ho già fatto) nonostante lui mi fosse veramente antipatico.
    Ma i risultati erano dalla sua parte, quindi lode al vincitore.

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