“Ma è un pesce d’aprile?”
No, no!… è proprio così.
Correva il primo giorno di aprile quando si è svolto il sorteggio dei gironi del mondiale 2022.
Come sempre in queste occasioni, analisti ed esperti, appena resa nota la conformazione dei gironi, sono partiti alla caccia di quello che sarebbe stato “il girone di ferro”, di quali squadre tra quelle più accreditate avrebbero potuto contare su un girone morbido, di quale, tra le compagini favorite, avrebbe affrontato il percorso più duro.
E via con commenti, previsioni, analisi..
In realtà, dal sorteggio tenutosi a Doha era emerso anche altro.
Era uscito dall’urna, ad esempio, un girone con 3 nazionali su 4 espressione di paesi atlantici, tutte facenti parte del mondo anglosassone, (Stati Uniti, Galles ed Inghilterra). Circostanza sorprendente considerata la presenza alla rassegna mondiale di nazionali di tutti i continenti.
Ci sarebbe stato da dibattere a sufficienza, considerato il fascino che una sfida tra paesi britannici porta sempre con sé. A questo andava aggiunta l’attenzione che non può non destare un incontro tra Stati Uniti ed Inghilterra, paesi da sempre amici, in un contesto, quello calcistico, in cui i sudditi di Sua Maestà sono destinati a far la voce grossa ma che, tuttavia, li ha visti clamorosamente soccombere in occasione del loro esordio mondiale, avvenuto in occasione del mondiale del 1950, quando i leoni inglesi “acconsentirono” di partecipare alla Coppa del Mondo, rendendo, a loro modo, un “favore” all’intero mondo del calcio.
Un girone in cui da subito si potevano scorgere storie, circostanze e precedenti da farne esondare l’interesse sino ad aspetti non strettamente calcistici.
L’urna, tuttavia, è quanto di più capriccioso ed incontentabile si possa immaginare.
E così all’interno del girone “occidentale” per eccellenza, pensava bene, in quel primo giorno di aprile, di inserire come quarta squadra la nazionale iraniana.
L’Iran del regime degli Ayatollah avrebbe affrontato in sequenza Inghilterra, Galles e Stai Uniti.
La memoria dei più attenti correva subito a momenti passati alla storia per il confronto tra sportivi rappresentanti di paesi non particolarmente amici.
Dalla famosa partita di tennis tavolo tra il cinese Zhuang Zedong e lo statunitense Glenn Cowan, apripista sotto la regia di Henry Kissinger del disgelo diplomatico tra Repubblica Popolare Cinese e gli Stati Uniti, ai duelli sotto canestro o sopra il ghiaccio tra URSS ed USA; dalla sfida tra Inghilterra ed Argentina con l’odore e gli schizzi del sangue versato per le isole Falkland (poi ritornate alle denominazione di Malvinas), passando dall’incontro tra Germania Ovest e Germania Est al mondiale del 1974, gli eventi sportivi tra paesi “nemici” hanno caratterizzato il dopo guerra senza soluzione di continuità.
Talvolta ne sono stati anche vittima, considerato il rifiuto da parte dell’Unione Sovietica di scendere in campo in occasione dello spareggio conto il Cile per l’accesso ai mondiali del 1974 e della semifinale della Coppa Davis del 1976.
In qualche altra occasione, l’evento sportivo ha rappresentato il pretesto propagandistico o la situazione per mostrare i muscoli, come accaduto in occasione del boicottaggio olimpico del 1980 e 1984.
La situazione dell’Iran, al cospetto del mondo occidentale ed atlantico, assume degli elementi propri di diversità rispetto alle circostanze testé elencate. Non si tratta di un confronto tra paesi o blocchi impegnati in un confronto bellico, né di una situazione ascrivibile a retaggi di equilibrio (o squilibrio) internazionale derivanti dall’esito del conflitto mondiale.
L’Iran è un paese sul quale grava una situazione di embargo, che si vorrebbe relegare ad una condizione di isolamento nei confronti del mondo.
Un paese il cui governo formale deve attenersi ai principi impartiti da una guida spirituale a traino teocratico.
Dall’acclamato ritorno dell’Imam Khomeyni in patria, avvenuto all’esito della rivoluzione del 1979, la sua posizione a livello internazionale si è identificata, talvolta anche per fini propagandistici, in modo sempre più evidente come nemico dei principi occidentali. Di sicuro il governo di Teheran non si è tirato indietro nell’indicare il nemico statunitense come il Grande Satana e le vicende dell’ultimo quarantennio non hanno mai portato ad una ricomposizione dei dissidi emersi a seguito della fuga dello Scià.
Posizione, quella iraniana, aggravatasi agli occhi del mondo negli ultimi mesi a seguito della repressione nei confronti di una popolazione che, almeno nella parte più giovane, spinge per una modernizzazione del paese e per il riconoscimento della basilari libertà personali.
In questo contesto, la nazionale iraniana si appresta a giocare la partita più importante della propria storia, la terza gara del girone eliminatorio di Qatar 2022, la partita che può portarla a raggiungere gli ottavi di finale.
E contro chi può giocarla se non contro il nemico dichiarato? Contro chi può giocarla se non contro la nazionale del paese che più è inviso al proprio governo?
Dall’altra parte la squadra statunitense può, a sua volta, ambire al passaggio del turno.
Il rapporto degli States con il football, pardon con il soccer, vive da mezzo secolo su equilibri instabili. Dall’istituzione di un campionato professionistico sul finire degli anni 70, più simile ad una competizione per stelle sul viale del tramonto che ad un torneo di livello accettabile, alla crisi del decennio successivo; dall’organizzazione della Coppa del Mondo 1994 all’attuale Major League Soccer (torneo ove i dollari grondano ma nel quale, in perfetto stile statunitense, non esistono retrocessioni dando vita al cosidetto “sistema chiuso”), il calcio si è accompagnato ad una curva sinusoidale con picchi inaspettati e repentine cadute di interesse.
Maggior successo ha avuto il soccer al femminile anche in considerazione della circostanza secondo cui, in ambito universitario, il calcio del gentil sesso risulta una delle discipline con il maggior seguito. E, si sa, gli sport praticati nei campus d’oltreoceano risultano sempre seguitissimi dal pubblico grazie alla meravigliosa connessione tra sport, studio e senso di appartenenza su cui si basa il sistema dei college americani.
Ma se negli Stati Uniti l’emancipazione femminile risulta inserita in un processo in essere oramai da un secolo, in Iran lo sport rappresenta una delle pochissime situazioni in cui alle donne è consentito uscire, seppur parzialmente, dai confini di una realtà predeterminata e poco propensa al progresso della loro condizione. Di sicuro anche nella pratica agonistica le donne iraniane sono soggette a limitazioni, come ad esempio nelle tenute da gara o nella scelta delle discipline praticabili, ma se vi è un contesto in cui le stesse possono mettere, anche di poco, la testa fuori da un guscio fatto di privazioni questo è quello sportivo.
E così ci avviciniamo alla sfida del 29 novembre.
Un partita di calcio a cui molti guarderanno con interesse.
In realtà, non sarà la prima volta che le due nazionali si affrontano durante un’edizione della Coppa
del Mondo. E’ già accaduto nel 1998.
Allora, però, l’evento cadeva in un momento in cui pareva possibile una distensione dei rapporti e, soprattutto, trattavasi di una sfida senza implicazioni di classifica, con le squadre tagliate fuori dal passaggio del turno.
Stavolta invece si gioca per qualcosa di importante.
Se per molti osservatori occidentali, il sorteggio del girone ha dato il via ad una serie di riflessioni politiche sul fatto che si sarebbero affrontati due paesi nemici, a Teheran l’esito dell’urna è stato visto come l’occasione di fare la storia.
Dopo tre qualificazioni di fila alla Coppa del Mondo condite da sorteggi che l’hanno visto affrontare avversarie “impossibili”, il Team Melli si trova nella condizione di giocarsi le sue chances e di mostrare al mondo la propria forza calcistica.
Nel 2014 un sinistro imparabile di Messi ha infranto i sogni persiani al 93′. Nel 2018 contro Spagna e Portogallo, l’Iran mostrò tutto il suo valore uscendo più per sfortuna che per demeriti propri.
Oggi, per la squadra persiana, gli Stati Uniti d’America non rappresentano il nemico politico ma “solo” la squadra da battere.
Giocatori e staff tecnico vorrebbero pensare solo a sconfiggere l’avversario sul campo. Troppo importante l’occasione che si prospetta loro davanti.
Ma al di fuori della squadra? Lì le cose cambiano. Dai rapporti con la stampa sino alle reazioni governative guidare la nazionale iraniana è esercizio più per diplomatici che per allenatori di calcio.
Non vi è stata conferenza stampa dall’inizio del mondiale, in cui il Commissario Tecnico non sia stato sottoposto ad un continuo fuoco incrociato di domande di natura politica, sociale e morale. Incalzato su diritti civili, condizione femminile e libertà di espressione, il selezionatore del Team Melli ha scelto l’unica strada possibile, quella di proteggere i suoi giocatori. Non l’ha fatto trincerandosi in silenzi o in atteggiamenti ipocriti. Lo ha fatto mettendo al primo posto il rispetto verso un paese che, pur in pendenza di situazioni particolari, non risulta dissimile da altri contesti verso i quali la stampa internazionale pare a suo dire poco interessata.
Immaginate il lavoro di un selezionatore che, nel mezzo all’avventura mondiale, oltre a preparare i suoi dal punto di vista tecnico, tattico, mentale, fisico, oltre a studiare gli avversari e preparare di volta in volta le partite, oltre ad affiancare i calciatori, debba quotidianamente rispondere a domande su temi extracalcistici sapendo che ogni singola risposta sarà ispezionata alla ricerca di elementi su cui discutere.
A tale improbo compito è chiamato in questi giorni Carlos Queiroz, settantenne portoghese, giramondo delle panchine, a cui l’Iran ha affidato nuovamente la sua a pochi mesi dal mondiale. Già eroe di Persia per i trascorsi alla guida della nazionale dal 2011 al 2019, tanta è la stima di cui nutre che la Federazione non si è fatta problemi ad esonerare il CT che l’ha condotta alla qualificazione pur di rivederlo sulla propria panchina.
Un uomo a cui l’esperienza calcistica ad alto livello non può fare difetto, abituato a gestire uomini prima che calciatori avendo allenato, per sei anni dal 2002 al 2008, il Manchester United.
Si, avete letto bene.
Negli anni radiosi di Alex Ferguson alla guida dei Red Devils, ad “allenare” la squadra era lui. Sir Alex la gestiva, la determinava con il suo immenso carisma, la sterzava nei moneti di difficoltà ma il lavoro di campo spettava a Queiroz.
Superato lo choc del debutto con l’Inghilterra in un match in cui le dinamiche extracalcistiche non possono non aver influito, e recuperato il suo attaccante migliore, ha ritrovato contro il Galles la “sua squadra”, organizzata difensivamente e capace di giocare palla a terra. Infortuni e squalifiche lo priveranno nella gara decisiva di alcune pedine importanti ma c’è da giurare che in campo scenderà un undici agguerrito e intenzionato a fare la storia.
Ma cosa rappresenta la nazionale iraniana?
La risposta in altri contesti sarebbe semplice. La nazionale rappresenta il proprio paese.
In realtà, ci sono tanti Iran diversi tra loro.
C’è l’Iran del regime degli Ayatollah, che ha definito i calciatori dei traditori per non aver cantato l’inno prima della gara con l’Inghilterra e li ha “riabilitati”, come nobile e virtuosa espressione del paese, dopo la vittoria ottenuta contro il Galles.
C’è l’Iran del popolo, oppresso e allo stremo, di cui una parte vede nelle gesta della propria nazionale un elemento di vanto e di orgoglio e un’altra fazione tende ad individuare i calciatori, soprattutto coloro che giocano all’estero e non hanno a che fare con le restrizioni domestiche, come dei privilegiati.
C’è poi l’Iran che sta fuori dall’Iran ovvero quella moltitudine di intellettuali, esuli, commercianti scappati al regime, che da decenni rende lustro al paese con scritti, film, opere di ingegno e di arte, rischiando la vita e rendendo al mondo dono della cultura persiana e delle sue forme espressive. Costoro vivranno la partita con un duplice e contrastante sentimento, divisi tra il tifo per la loro nazionale ed il timore che un eventuale successo possa offrire al regime un elemento di propaganda e di forza.
E poi c’è l’Iran che percepiamo noi.
Ma forse dovremmo definirlo quello che vogliamo percepire.
E’ convinzione diffusa, e per alcuni aspetti corretta, che l’Iran rappresenti un paese quanto più lontano possibile dal nostro per tutti i motivi che conosciamo.
E’ legittimo da parte nostra sceglierci gli amici, i partner, i riferimenti che meglio si addicono al nostro modo di intendere la vita e la società.
Pensare di avere qualcosa in comune con determinati contesti ci provoca fastidio ed irritazione
Eppure c’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, precedente al ritorno di Khomeyni in patria, in cui l’Iran intratteneva rapporti strettissimi con il nostro paese, non solo dal punto di vista commerciale
E’ sufficiente di tanto in tanto guardarci intorno per comprendere come le cose non stiano propriamente come ce le disegnamo. Ogni volta in cui dibattiamo di “tappeti persiani” presenti nelle nostre abitazioni o di gatti di “razza persiana” rappresentiamo, inconsapevolmente, una realtà in cui i punti di contatto sono molto più presenti di quanto vorremmo..
.
Lo sport non soffre di questa patologia. I protagonisti in campo sono sottoposti alle stesse regole e alle medesime condizioni di gara.
Mai come stavolta ci si auspica sia una bella partita.
Novanta minuti per unire sotto la stessa bandiera ciò che le diplomazie e i governi tendono a dividere. Novanta minuti (più recupero) in cui l’interesse per l’evento renderà comuni i pensieri di persone e popoli altrimenti lontani.
Novanta minuti che, speriamo, verranno un giorno ricordati quale testimonianza di un mondo, ormai passato, fatto di divisioni nel frattempo ricomposte.